Chi c’era racconta che è stato il goal più bello che ha mai visto segnare. “Il pubblico in piedi si spellò le mani perché per dieci ininterrotti minuti non fece che applaudire il genio” racconta l’ala destra della Juventus di Sao Paulo José Pando

Nel mondo anglosassone tra Pelé e Maradona non hanno dubbi e il brasiliano è considerato il più grande giocatore di calcio di tutti i tempi. L’argentino, naturalmente, non gode di molto credito da quelle parti.
Ciononostante, non sono pochi gli appassionati che ancora oggi in Inghilterra, la patria degli inventori del calcio moderno, alle prodezze di O Rey sono disposti a preferire quelle di Geoff Hurst nella finale del campionato del mondo disputato in Inghilterra, il 30 luglio 1966. In particolare il gol del 3-2 dei tempi supplementari alla Germania Ovest, è per loro il più bello di sempre.
Che quella palla non avesse varcato la linea bianca, per lo meno non interamente, se ne accorsero un po’ tutti subito. Regina compresa. L’arbitro svizzero Dienst però non se la sentì proprio di annullarlo. Il guardalinee russo Banhramov non parlava un gran che bene l’inglese, ma si capiva stesse dicendo di no. Eppure Dienst convalidò: gol. Era il minuto 100’, Inghilterra 3 – Germania Ovest 2. I futuri baronetti si accingevano a conquistare la loro prima e unica coppa del mondo, che allora si chiamava ancora Rimet. Pelé ne aveva già vinte due nel 1966 di quelle coppe, e una terza, se la sarebbe aggiudicata in Messico quattro anni dopo contro l’Italia aprendo le marcature con uno stacco di testa dei suoi su cui Albertosi nulla poté.
Eppure nella memoria di chi ha inventato il calcio moderno il gol del secolo resta quello di Hurst (https://theathletic.com/3755982/2022/12/11/geoff-hurst-1966-world-cup-final/).
Avranno aiutato anche le statistiche visto che grazie a quel gol per più di sessant’anni il baronetto avrebbe vantato un record ineguagliato, una tripletta in una finale mondiale. Fino a Mbappé nessuno sarebbe riuscito a fare altrettanto.
Paradossi del calcio.
Hurst meglio di Pelé?
Be’ non esageriamo. Questo non sarebbero capaci di sostenerlo neanche in Inghilterra. Ma per loro nessuno degli oltre 1200 gol segnati da O Rey vale quello del baronetto.
E per Pelé? Quale era il gol a cui era più affezionato? Quello che riteneva il più bello? Ora che il re del calcio ci ha lasciati, i confronti, le diatribe sono riprese. Prima Maradona? Van Basten o Baggio? Puskas o Di Stefano? Messi o Ronaldo?
E tra tutti i suoi goal, quale mettere prima, quello contro la Svezia, quello contro l’Italia, quelli con il Santos?
Be’, nella personale classifica di Pelé il più bello venne siglato in circostanze tutt’altro che importanti, lontano da prestigiosi palcoscenici. Secondo Edson Arantes do Nascimiento e i suoi compagni di squadra del Santos Futebol Clube di quegli anni, Pepe, Zito, Dorval e Coutinho, che furono spettatori della prodezza di “O Rey”, il più bello che abbia mai messo a segno fu siglato in un pomeriggio del 1959 nel piccolo stadio del Clube Atlético Juventus di San Paolo.
Il più bello e anche il più misterioso perché quel giorno non c’era nessuna telecamera a riprendere le prodezze del già mitico Santos di Pelé ed è quindi solo attraverso le parole dei protagonisti, testimoni diretti, che ne siamo venuti a conoscenza. Alcuni di loro avrebbero confermato che Pelé aveva ragione, parlando davanti alla telecamera di Annibal Massaini Neto, autore del documentario “Pelè Eterno” (https://www.festival-cannes.com/en/films/pele-eterno) dedicato al giocatore brasiliano.
Era il 2 agosto del 1959 e la Juventus Clube Atlético di Sao Paulo si trovava ad affrontare nel proprio campo il Santos. Al piccolo stadio della Rua Javari, il Conde Rodolfo Crespi, non entravano più di 10 mila persone, ma fosse stato grande quanto il Maracana, quel giorno, si sarebbe riempito comunque.
Il Conde Rodolfo Crespi però non era il Maracana, piuttosto un campo di periferia, che ciononostante rappresentava il risultato di un enorme sforzo e di un grande attaccamento della comunità locale fatta prevalentemente di emigranti di origine italiana, alla famiglia che lo aveva costruito, i Crespi.

E qui la storia del gol di Pelé si tinge di italiano perché per raccontarla è necessario fare un passo indietro e spostarsi di molte migliaia di chilometri fino a raggiungere la provincia di Varese dove appunto si trova il comune che diede i natali al conde Rodolfo Enrico Crespi, Busto Arsizio. Trattasi di un cognome importante perché in tutta la zona della provincia di Varese già agli inizi dell’Ottocento i Crespi avevano iniziato a produrre cotone e ad ingrandire sempre di più le loro attività, tanto da far guadagnare a tutta la zona l’appellativo di “Manchester d’Italia”,
Proprio in virtù di questo sviluppo e dell’affermarsi nella famiglia di idee progressiste in merito alle condizioni degli operai e del lavoro in fabbrica, venne fondato poco lontano da Busto Arsizio un villaggio operaio che doveva rispondere alle più avanzate esigenze dei lavoratori (https://villaggiocrespi.it/). L’ideatore del progetto fu nel 1877 Cristoforo Benigno Crespi, che lo passò poi al figlio Silvio il quale proseguì l’opera del padre.
Ma torniamo al Crespi che interessa di più a noi: il Conde Rodolfo Enrico Crespi, nato nel 1874 a Busto Arsizio in realtà non era imparentato con i più celebri e affermati Crespi, ma come loro si occupava negli stessi anni della produzione tessile avendo iniziato a lavorare come il padre e alcuni dei suoi fratelli (era l’ottavo di nove figli) negli stabilimenti industriali della zona. La possibilità però di raggiungere obiettivi più ambiziosi lo spinse a cercare, come fecero in quel periodo molti milioni di nostri connazionali, maggiori fortune in Brasile e in particolare nella città di San Paolo (https://www.libreriauniversitaria.it/merica-merica-emigrazione-colonizzazione-lettere/libro/9788885923690).
Con il sostegno e la collaborazione di Enrico dell’Acqua aprì il primo e più importante cotonificio nel quartiere della Mooca che venne presto ribattezzato con il suo nome. Oggi all’incrocio tra Rua Dos Trilhos e Rua Taquari, rua Visconde de Laguna e Rua Javari sorge un supermercato ma per oltre un secolo il grande edificio a tre piani progettato nel 1898 dall’architetto veneto Giovanni Battista Bianchi, era tra i più importanti di San Paolo (https://www.jstor.org/stable/23239269) e il quartiere totalmente identificato con l’Italia per la quantità di emigranti italiani che lì si erano stabiliti. Una delle più importanti al mondo, sicuramente la più importante di tutto il Brasile se consideriamo che nel 1917 il 37% della popolazione totale di San Paolo aveva origini italiane e abitava alla Mooca.
Chiarita quindi la cornice storica in cui operava il Conde Crespi, non sarà allora difficile immaginare come il calcio, diventato sempre più popolare, spingesse gli operai a organizzare tornei, formare squadre e dedicare molto del loro tempo a questo intrattenimento e i dirigenti a sfruttare questa “naturale” predilezione degli operai per distoglierli dal conflitto di classe in corso. Non è forse un caso che Crespi, il quale nel frattempo aveva intrapreso iniziative editoriali fondando un giornale di orientamento fascista che doveva essere letto soprattutto dagli operai dei suoi cotonifici, accogliesse e anzi iniziasse a promuovere, proprio nel 1924, la richiesta di alcuni dipendenti della fabbrica a fondare un vero e proprio Club.
Il 1924 non è una data qualsiasi nella storia del Brasile: la rivolta Paulista (https://editoraunesp.com.br/catalogo/9788571397446, bombas-sobre-sao-paulo), anche soprannominata rivolta dimenticata, imperversava e solo attraverso dei pesanti bombardamenti nei quartieri popolari come la Mooca, dove lo stabilimento Crespi venne colpito e in parte distrutto, l’esercito riuscì a sedarla.
Proprio il tentativo di superare i conflitti innescati dai rivoltosi diede l’impulso decisivo: inizialmente la dirigenza della fabbrica optò per il nome “Extra Sao Paolo”, ma Rodolfo Crespi non era d’accordo. Aveva fatto in tempo infatti prima di partire dall’Italia ad appassionarsi al calcio e iniziare a simpatizzare per la Juventus. Il colore delle magliette però non potevano essere le stesse, a strisce verticali bianche e nere, troppe le squadre pauliste che indossavano già quel tipo di maglie. Tanto valeva secondo lui scegliere quelli dell’altra squadra di Torino, la capitale industriale dell’Italia, il granata e il bianco. Per un paio di anni poi il figlio di Rodolfo, Adriano, diventato nel frattempo presidente del Club, introdusse alcuni cambiamenti e inserì un giglio in onore della Fiorentina nel simbolo della squadra, modificandone anche il nome e sostituendo con il viola il colore delle casacche. Durò poco perché a partire dal 1933 il nome Juventus e il colore granata ripresero il loro posto e contraddistinguono ancora oggi il club.
Granata erano le magliette che indossavano gli juventini di San Paolo quel pomeriggio di fronte agli ospiti del Santos che si accingevano nel 1959 a vincere il loro primo campionato rio-paulista, aprendosi la strada ai successi degli anni seguenti. Lo score scivolò rapidamente verso un pesante 2-0 per i bianconeri grazie a una doppietta di Pelè, appena diciannovenne. L’attaccante in quella stagione aveva segnato moltissimo grazie alle rapide e imprevedibili “tablinhas” che realizzava con Coutinho.

Ma il pubblico incurante del risultato, continuava a provocarlo.
“O Rey” rispose solo “aguenta ai que vo chegar”, rivolgendosi alle tribune “ora vi faccio vedere io” e quando Dorval affondò sulla fascia destra, smarcato da un calibrato passaggio di Zito, la difesa juventina avrebbe ulteriormente pagato dazio per la sfacciataggine dei propri tifosi. Pelè, aspettò sul limite dell’area che il compagno arrivasse in fondo, che crossasse e che la palla arrivasse proprio lì, dove stava lui. Bastava anticipare Homero e a quel punto immedesimarsi nella parte, dare inizio allo spettacolo, lasciare che dai suoi piedi si irradiasse quell’alone magico che aveva già incantato il mondo intero e zittire tutti.
La palla rimbalzò proprio davanti a lui, e Pelè la toccò sotto: pallonetto, il primo e saltò il difensore juventino. Mentre ricadeva, la ritoccò sotto, di nuovo al volo. Secondo pallonetto, e pure Julinho rimase alle sue spalle. Poi, dolcemente, controllò la palla con la coscia senza farla rimbalzare a terra mentre Mao de Onça gli si scaraventò addosso in un’uscita plateale quanto inefficace. Pelè lo saltò facilmente. Terzo pallonetto.
La palla ora libera di volteggiare in aria si sarebbe depositata in porta da sola se non fosse che Pelè ci teneva troppo a darle ancora un piccolo aiutino e zompettando ancora dietro alla sfera, toc, la colpì con la testa spingendola nella porta sguarnita.
Chi c’era racconta che è stato il goal più bello che ha mai visto segnare. “Il pubblico in piedi si spellò le mani perché per dieci ininterrotti minuti non fece che applaudire il genio” racconta l’ala destra della Juventus José Pando, che vide tutto dalla panchina, perché, proprio in seguito a un contrasto fortuito con Pelè, era stato costretto ad abbandonare il campo di gioco.
E così, dei suoi oltre milleduecento gol, O Rey ha scelto proprio questo, un gol che parla anche un po’ la nostra lingua e che ci ricorda un importante momento della nostra storia. Tra quegli spettatori attoniti, c’erano sicuramente molti discendenti di quei milioni di nostri connazionali che partirono all’inizio del Novecento per cercare fortuna altrove, lontano dal nostro paese di cui sarebbe bene ricordarsi di più.
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