Che non tutto sia già scritto e prevedibile, anche nel tempo oscuro che viviamo, lo dimostra la vicenda del Parco pubblico Don Bosco di Bologna. Un parco urbano che ha saputo ribellarsi alla cementificazione e al fatto che a decidere siano solo gli amministratori della città, un parco che è diventato un simbolo del riconoscimento dei diritti della natura con cui mettere in discussione la visione antropocentrica tradizionale dominante. Lotte come quella del Comitato Besta, scrive Andrea Staid, ci ricordano prima di tutto che la vera sfida consiste nel riappropriarsi della capacità di immaginare nuovi modi di abitare i territori
Il riconoscimento dei diritti della natura è un tema di crescente importanza nell’antropologia e nel dibattito ecologista contemporaneo. Questo tema si inserisce all’interno di una più ampia riflessione sul rapporto tra esseri umani e natura, che mette in discussione la visione antropocentrica tradizionale e propone un approccio multispecista. L’antropologia offre una prospettiva preziosa per comprendere le diverse concezioni dei diritti della natura presenti nelle diverse culture del mondo. Gli antropologi e le antropologhe hanno studiato come le comunità indigene e altre società tradizionali spesso riconoscono i diritti e le agency degli esseri non umani. Queste ricerche hanno contribuito a sfidare l’idea che la natura sia una semplice risorsa da sfruttare e hanno aperto la strada a nuove forme di giustizia ambientale. Il dibattito ecologista contemporaneo è sempre più influenzato dalle idee multispeciste. Queste idee propongono di superare l’antropocentrismo e di riconoscere che tutti gli esseri viventi hanno valore intrinseco e meritano rispetto e protezione. I sostenitori di questo approccio sostengono che i diritti della natura sono necessari per affrontare le sfide ambientali del nostro tempo, come il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Il riconoscimento dei diritti della natura è un tema complesso e in continua evoluzione. Tuttavia, è un tema di grande importanza che ha il potenziale di trasformare il nostro rapporto con il mondo naturale e di creare un presente e un futuro più giusto e sostenibile.
Questo ragionamento ci porta a pensare a una idea di una foresta giuridica come esposto nel bel libro pubblicato da Nottetempo di Paulo Tavares e Ursula Biemann, Forest Law. Un concetto innovativo che mira a riconoscere i diritti legali della natura, ponendo gli ecosistemi e le specie vegetali e animali al centro del sistema giuridico. Si tratta di un paradigma rivoluzionario che sfida la visione antropocentrica tradizionale e propone un approccio più olistico e inclusivo al rapporto tra animali umani e il resto dei viventi. Negli ultimi anni, il concetto di foresta giuridica ha guadagnato crescente attenzione e riconoscimento a livello internazionale. Diverse nazioni e comunità hanno iniziato a riconoscere i diritti legali della natura, adottando leggi e disposizioni che tutelano gli ecosistemi e le specie. Ad esempio, l’Ecuador ha riconosciuto la natura come soggetto di diritti nella sua Costituzione del 2008, mentre la Nuova Zelanda ha concesso personalità giuridica al fiume Whanganui nel 2017. I principi chiave della foresta giuridica sono molto semplici ma difficili da far accettare e rispettare a chi specula sull’ambiente. I concetti principali si basano sul riconoscimento dei diritti della natura, che non è una risorsa da sfruttare, ma ha valore intrinseco e merita rispetto e protezione. Protezione degli ecosistemi che sono fondamentali per la salute del pianeta e per il benessere di tutti gli esseri viventi compreso noi animali umani.
L’azione diretta come strumento di riappropriazione
Per parlare in pratica di questi temi sui diritti della natura si può partire dalla straordinaria storia di resistenza di una parco e della sua comunità resistente: il Parco Don Bosco a Bologna rappresenta un luogo cruciale nella lotta per la ridefinizione dello spazio urbano e la sua riappropriazione da parte della cittadinanza. Questo spazio interstiziale si configura come un esempio emblematico di come l’azione diretta possa generare un processo di ri-significazione e ri-immaginazione di un luogo, trasformandolo in un bene collettivo.
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L’esperienza di occupazione di questo parco cittadino si basa su una sorta di rituale di resistenza collettivo che riflette sul vero significato di bene comune all’interno dello spazio urbano. L’antropologo David Graeber nel suo libro Direct Action: An Ethnography ci ricorda che l’azione diretta rappresenta una modalità di disconoscimento dello Stato e delle sue imposizioni, promuovendo la resistenza e l’ignoramento delle norme stabilite. In questo contesto, il Parco Don Bosco diviene un simbolo di ribellione contro le logiche burocratiche che limitano la libertà di vivere e abitare gli spazi urbani, ma soprattutto la lotta contro la cementificazione del parco mette in discussione il concetto che a decidere non siano gli abitanti ma gli amministratori della città.
All’interno di questa “piccola” esperienza sta avvenendo una cosa molto grande e replicabile, ovvero la capacità collettiva di Ri-immaginare lo spazio urbano. L’azione diretta nel Parco Don Bosco ha innescato un processo creativo e istituente trasformando il parco da un luogo destinato alla demolizione in un simbolo di resistenza e riappropriazione comunitaria. La resistenza delle attiviste ha varie facce e metodi, una particolare per un contesto urbano come quello di Bologna è senza ombra di dubbio la creazione di case sugli alberi a vari metri da terra, dove dormono da mesi le attiviste per evitare sgomberi notturni da parte delle forze dell’ordine. Oltre alle case costruite sugli alberi sono tante le attività collettive, le occupanti hanno dato vita a un nuovo modo di vivere e abitare questo spazio, includendo nella relazione non solo gli esseri umani, ma anche la flora e la fauna presenti.
Questa esperienza di lotta ci permette di riflettere anche su quelle che chiamerei “ecologie” narrative che spesso vengono utilizzate per giustificare scelte urbanistiche discutibili. Nel caso del parco Don Bosco, il progetto dell’amministrazione comunale prevede di demolire la scuola a fianco del parco per ricostruirne una più “ecologica” al suo interno, distruggendo un’area di biodiversità. Questa narrazione appare strumentale e ipocrita, in quanto non tiene conto delle esigenze reali della comunità umana e non umana che vive nel parco o attraversa il parco. Il Comitato Besta (fb), che si è costituito per difendere le scuole esistenti e il parco dall’estate del 2023, e le attiviste che sostengono la protesta da quattro mesi presidiando il parco hanno uno slogan – “L’edificio più ‘green’ è quello che c’è già” – che esprime bene il desiderio di cura del territorio, anziché di devastazione ed estrazione di profitto. Il Comune di Bologna non ha mai preso in considerazione il progetto alternativo di ristrutturazione delle scuole già esistenti e di salvaguardia del parco con la sua biodiversità. Ancora oggi, nonostante la città si stia sempre più mobilitando contro questo agire politico – sui giornali si parla di “effetto Besta” con la nascita di nuovi comitati contro altri progetti di “riqualificazione” -, e il sindaco stesso abbia sospeso i lavori dopo un’escalation di violenza da parte delle forze dell’ordine contro le persone che difendono il parco, la giunta comunale sostiene che i lavori di realizzazione del progetto già approvato debbano riprendere quanto prima. Forse quando ragioniamo di abitare sostenibile ed ecologico dovremmo ricordarci che la casa più ecologica è quella che non costruiamo.
La burocrazia come ostacolo alla ri-immaginazione
Tuttavia, questo processo di ri-immaginazione si scontra con la burocrazia, che attraverso divieti e regolamenti cerca di limitare l’utilizzo dello spazio e di imporre la sua visione di “normalità”. David Graeber definisce questo fenomeno come la creazione di “dead zones of imagination“, ovvero zone morte della capacità immaginativa, che impediscono alle persone di concepire alternative alle strutture precostituite. La sfida consiste nel superare queste dead zones of imagination e nel riappropriarsi della capacità di immaginare nuovi modi di vivere e abitare gli spazi urbani.
Il Parco Don Bosco rappresenta un esempio concreto di come questo processo possa essere realizzato attraverso l’azione diretta, la resistenza e la ri-immaginazione collettiva. Questa esperienza ci insegna che la riappropriazione urbana è possibile attraverso la mobilitazione collettiva. Superando le barriere imposte dalla burocrazia e riattivando la nostra capacità immaginativa, possiamo trasformare gli spazi urbani in luoghi di vita, condivisione e resistenza.
Tra gli ultimi libri di Andrea Staid Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente (Utet)
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Pierre Alain dice
Eccellente articolo.
Ognuno può pensare come crede, ma la Terra, ed in questo caso, il territorio è unico.
Bisogna preservarlo a tutti i costi anche per farlo beneficiare alle prossime generazioni.