L’associazione “di categoria” del commercio equo e solidale tira un sospiro di sollievo postumo: secondo il rapporto 2012 dell’Assemblea Generale dell’equosolidale (Agices) appena pubblicato, le 90 organizzazioni socie hanno registrato (a fine 2010, periodo di rilevazione) un aumento di fatturato del 3% rispetto all’anno precedente. Un vero sollievo rispetto all’annus horribilis 2009 che aveva segnato, per la prima volta dal suo lancio in Italia, uno stop alla crescita economica del movimento.
Nel mio “giro d’Italia” per la presentazione del libro «Un commercio più giusto» (Altreconomia) però, come dalle colonne del nostro Comune, trasuda inquietudine fuori e dentro Agices per le grosse difficoltà del 2012: anche i clienti più affezionati delle botteghe stanno attenti agli scontrini, ma soprattutto è diffuso un senso di stanchezza rispetto al modello classico di importazione da Sud a Nord. E’ difficile, ci si confessa a mezza voce, essere solidali quando si pensa con cruccio a come risolvere la terza settimana del mese. Gli equo-consumatori meno motivati scelgono sempre di più di rifornirsi di prodotti certificati al supermercato, una parte non trascurabile delle organizzazioni storiche ha pareggiato il bilancio attingendo ai fondi accantonati a riserva negli anni di crescita impetuosa, alcune centrali equosolidali sperimentano outlet fisici e online che svuotano ancora di più gli spazi fisici, altre hanno chiuso o versano in grave crisi, anche perché gli accordi commerciali in corso all’interno dei grandi coordinamenti spingono le botteghe a concentrare i pochi ordini tra pochissimi fornitori per ottenere utili sconti riservati a chi compra di più.
Il Centro-Sud è quello che paga il prezzo più alto, e non partecipa alla ripresa: in un esercizio di 81 milioni 735mila euro complessivi le organizzazioni Agices della Campania perdono il-2% di ricavi rispetto al bilancio precedente, quelle del Lazio il 14%, quelle delle Marche il 16%, in Sicilia il 26% e quelle Toscane addirittura il 30%.
«La nostra navigazione è resa più difficile da alcuni fattori di rischio – spiega il presidente Agices Franceschini introducendo il report – tra i quali segnaliamo la frammentazione organizzativa e territoriale; qualche scelta imprenditoriale che non ha ottenuto gli obbiettivi sperati; in alcuni casi l’invecchiamento della proposta e in altri la stanchezza dei gruppi che hanno creato e fatto crescere le Organizzazioni; e infine gli evidenti problemi di sostenibilità legati alla stagnazione economica e al calo dei consumi al dettaglio».
I volumi di vendite restano, ad ogni modo, importanti in questa nicchia di mercato, a testimonianza della fedeltà degli equo-consumatori e del loro identikit di individui istruiti a reddito medio-alto. A livello internazionale per i soli prodotti certificati Fairtrade si tratta di affari da 4,36 miliardi di euro, per i soci Agices in Italia, sempre nel 2010, di oltre 81 milioni e 750mila euro di ricavi, dove la parte del leone la fa Ctm Altromercato che, senza frutta e mense, gestiti da società consociate, realizza oltre 10 milioni e mezzo di euro di acquisti dei 13 e spicci registrati dal complesso delle organizzazioni importatrici. Secondo la mappa Agices i tre soci del Trentino Alto Adige, tra cui Ctm come centrale, totalizzano oltre 38 milioni e mezzo di ricavi, circa un terzo del totale dei soci Agices. Le vendite in tutto lo stivale fotografano però la stagnazione del fenomeno: il 31% dei fatturati si fa con le vendite dirette al pubblico (era il 35% l’anno precedente), il 47% con le vendite tra centrali e botteghe, tra botteghe, e le vendite alle altre organizzazioni di economia solidale, mentre la grande distribuzione e gli altri canali come macchinette distributrici, ristorazione e regalistica aziendale fanno realizzare rispettivamente il 16% e il 6% dei ricavi totali, in lieve crescita rispetto agli anni precedenti.
Gli oltre mille lavoratori, in gran parte assunti con veri contratti, i quasi 5mila volontari che determinano però, in gran parte, la possibilità per molti dei 247 punti vendita la possibilità di rimanere aperti, la formazione e le attività educative che raggiungono oltre le undicimila ore presso scuole e altri spazi fanno capire che questa parte del movimento dell’economia solidale, se fa fatica a coinvolgere e convincere come un tempo, deve pensare al proprio futuro con responsabilità. Per capire come uscire dalla nicchia, pur rassicurante, del mercato equosolidale che conosciamo senza buttare, con l’acqua sporca degli appetiti multinazionali e del tutto nazionali, quella rete territoriale di associazioni grandi e piccoli che sognava, fino a qualche tempo fa, un’economia buona per una società migliore.
Nicola dice
Purtroppo in Italia, a tutti i livelli, ci dobbiamo levare dalla testa che si può andare avanti con microimprese e microattività. L’Italia è stato il paese dell’innovazione delle cooperative, bisogna ricicciare fuori in modo preponderante questo modello di produzione e commercio, sennò non si va da nessuna parte. Bisogna fare economie di scala, tagliare i costi fissi di immobili etc, riuscire a fare strategie di prezzo più competitive attraverso questi tagli e cercando di vendere più quantità.
247 botteghe sono troppe, non c’è niente da fare. Bisogna rinunciare all’autonomia del gruppo di amici che fanno il piccolo investimento e ci provano, e costruire compagini societarie più estese. Punti vendita più ampi, con assortimenti più ampi, investendo anche un po’ in promozione.
Io vado a comprarmi il mio caffè preferito, il mio thè preferito, le mie spezie preferite etc. in una bottega di San paolo a Roma, ma ormai sempre più guardando al portafoglio. Sono brave persone quelle che la gestiscono, ma… ma ci vuole purtroppo più capacità gestionale, investire magari in un po’ di consulenza organizzativa, insomma fare una fusione societaria con investimenti socializzati. Altrimenti quello che dovevo essere un modello di filiera produttiva e commerciale alternativo allo sfruttamento mondiale si riduce alla beneficienza. C’è la Città dell’Altra Economia a Roma, quello dovrebbe diventare non dico il solo, ma il più grande e organizzato di 2 o al massimo 3 punti vendita romani.
saluti
nicola