Il Forte Bravetta, periferia ovest di Roma, negli del fascismo e durante l’occupazione nazifascista fu teatro di decine di fuciliazioni. Negli anni quaranta il quartiere intorno al Forte era chiamato ancora suburbio Gianicolense. È in questo pezzo di città, in via dei Gonzaga 34, che oggi anni opera Capoverso, cooperativa sociale composta solo da volontari e impegnata sui temi del commercio equo. In questa intervista Federico di Capoverso spiega tra le altre cose, come la scelta di non dover produrre al momento posti di lavoro, e dunque di poter chiudere i bilanci con relativa tranquillità, offra alla cooperativa una libertà importante che incide sulle relazioni sociali che nascono attraverso la bottega. Che sia un modello da recuperare? Di seguito, l’intervista, in questi link invece sono leggibili le «puntate precedenti» del viaggio di Comune nelle botteghe romane: Capo Horn, Domus Aequa, Comes, Equociqua!, Il Fiore (di Ladispoli).
Raccontaci una vostra giornata tipo, quello che avviene più o meno qui tutti i giorni in bottega…
Capoverso è aperta tutti i giorni, tranne il lunedì mattina, le nostre giornate sono quindi scandite dalle attività proprie di un esercizio commerciale: sistemazione e pulizia degli scaffali, reintegro delle merci mancanti, gestione del sito e dei vari social network. Il sabato ci occupiamo della distribuzione dei cassettoni di verdura ordinati. Nel frattempo troviamo lo spazio per la socializzazione con i passanti che entrano per curiosare e ai quali cerchiamo di fornire maggiori informazioni possibili su quello che facciamo, con i negozianti vicini, con i clienti abituali, con gli amici, molti dei quali oltre a venire in bottega per i loro acquisti passano volentieri a trovarci per un caffè o una semplice chiacchierata. Il sabato è anche il momento di incontro di tutte le risorse attive di Capoverso: soci e volontari si danno appuntamento in bottega per programmare le attività della cooperativa, in particolare le nostre colazioni eque della domenica mattina, da ottobre ad aprile, oppure dei nostri aperitivi del sabato, da maggio a settembre. Che con cadenza settimanale rappresentano uno dei nostri più importanti momenti di incontro con clienti, amici, sostenitori.
Come vivete il rapporto sostenibilità economica e dimensione politico sociale della vostra esperienza?
La sostenibilità economica è certamente la nota dolente: Capoverso è gestita da volontari, pertanto tutto quello che riusciamo a fare è frutto dal tempo che questi dedicano alla cooperativa. Anche io parla, pur essendone il presidente, non percepisco alcun reddito o rimborso. Come cooperativa, oltre che come bottega, cerchiamo di sensibilizzare sul valore politico del consumare scegliendo un prodotto piuttosto che un altro. E ci sforziamo di far notare come acquistare prodotti etici non sia poi tanto più costoso della spesa al supermercato.
Siete una bottega che lavora nel quartiere di Forte Bravetta: cosa significa per voi la relazione con il territorio e che tipo di territorio è questo?
Via dei Gonzaga, dove siamo, è una strada chiusa, con una piazzetta, con il mercato… sembra un paesino. Questa realtà localizzata, seppure penalizzante, ci piace molto. Come abbiamo accennato all’inizio, cerchiamo di essere, e spesso i nostri clienti ce ne danno atto, un punto di riferimento e informazione, di ritrovo e aggregazione.
Quali progetti portate avanti in bottega?
La bottega, proprio in quanto animata da volontari, al momento non ha progetti propri in corso. Abbiamo aderito alle campagne per il riciclo dei cellulari e dei vecchi occhiali e operiamo come centro di raccolta. Cerchiamo di promuovere il riuso, ad esempio utilizzando contenitori riciclati per i detersivi alla spina. Stiamo anche organizzando degli incontri periodici che avranno come tema la presentazione di alcuni progetti di commercio equo a noi particolarmente cari, ma anche una serie di eventi informativi sull’omeopatia, sull’open source, sull’economia domestica. Ultimamente si sono verificati in bottega alcuni “episodi di baratto spontaneo” tra clienti, stiamo cercando di organizzare qualcosa di più sistematico su questo tema. Facciamo inoltre parte di quel nucleo di botteghe, associazioni ed altro che sostengono attivamente il progetto Tatawelo: la campagna di prefinanziamento del Chiapas Caffè anche quest’anno darà i suoi buoni frutti e tra qualche giorno arriverà in bottega il nostro caffè.
La diffusione del commercio equo nella grande distribuzione è sempre stato un tema molto discusso nel movimento: come valutarlo dopo vari anni?
Come dicevamo prima sosteniamo che nell’ambito di una economia familiare la spesa aggiuntiva per l’acquisto di prodotti del commercio equo, ecocompatibili o biologici, non sia poi così elevata, raffrontata ai benefici che ne trae sia chi compra che chi produce. Purtroppo combattiamo ad armi impari con la grande distribuzione e con le tante multinazionali che hanno integrato linee di prodotti marchiati fair trade nei loro cataloghi, vedi Nestlè con KitKat o Nescafè. Sulla grande distribuzione, poi, si potrebbe fare un appunto ai vari produttori di commercio equo i cui prodotti sono in bella mostra sugli scaffali dei supermercati: se infatti questi produttori hanno sviluppato il potere di vendita ma anche di immagine che li ha portati ad essere appetibili per la grande distribuzione il merito è del faticoso lavoro che le botteghe hanno svolto nel corso degli anni, informando il pubblico e sostenendo i progetti. Ci rendiamo conto che il fine ultimo è la massima diffusione del prodotto fair trade, ma ci saremmo aspettati un maggior riguardo nei confronti delle botteghe: banalmente, se un chilogrammo di pasta di Libera in un supermercato costa al dettaglio quanto alla bottega costa all’ingrosso, è chiaro che le botteghe non hanno speranza. Insomma, crediamo che, se affidato solo alla grande distribuzione, il trend positivo del commercio equo sia da ritenere poco più che una moda. E le mode passano. In quest’ottica quindi il commercio equo ha fallito è stato sconfitto.
Cosa pensate del commercio equo a Roma? E in Italia come stanno messe le cose?
Nonostante i passati tentativi di coordinamento delle varie realtà, ci sembra che le botteghe romane siano un pò troppo concentrate sulle loro economie, chi per riuscire a sopravvivere, chi per aumentare la propria solidità. Uno “scollamento culturale” che ha portato a un deficit di collaborazione tra le botteghe e alla mancata veicolazione verso l’esterno di un messaggio unitario e che, complice anche la crisi economica che tutti viviamo, ha disorientato ulteriormente il potenziale consumatore allontanandolo dal commercio equo. In particolare a Roma non è un caso che dopo la chiusura di Rees, la rete tra le botteghe, la città non sia più stata selezionata tra quelle in cui organizzare l’annuale fiera del commercio equo che ormai tradizionalmente si sposta tra Milano e Firenze.
Quali relazioni avete con le altre economie della città?
Abbiamo buoni contatti con alcune realtà cittadine con cui scambiano piccole collaborazioni, ma come dicevamo abbiamo la sensazione che le varie botteghe romane siano troppo assillate dai loro bilanci. In questo ci riteniamo dei privilegiati, non dovendo vivere degli introiti della bottega possiamo ancora permetterci di tenere qualche posizione di principio.
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