Da solo il carcere è un’istituzione totale che non svolge la funzione rieducativa prevista dalla Costituzione ma produce soltanto violenza. Riflessioni sul carcere oggi: un dialogo con Gabriella Stramaccioni, fino a marzo scorso Garante dei diritti della persone private della Libertà per il Comune di Roma

“Rindo Reggina Celi c’è ‘no scalino, chi nun salisce quello non è romano. Non è romano e nemmeno tresteverino”. Lo stornello romanesco attribuiva alla frequentazione con il carcere la vera romanità, che partiva dal rione popolare e povero di Trastevere, per cui delinquere era l’orgoglio e il passaggio obbligato della cittadinanza maschile romana.
Da quando nel 1881 il Convento dedicato a Santa Maria di Via della Lungara 29 venne trasformato in Carcere, l’espansione della città dopo la Seconda Guerra mondiale riguardò anche gli istituti penitenziari, portando alla costruzione del Carcere di Rebibbia, nella periferia est, che dal 1972 occupa quattro istituti carcerari di cui uno femminile.
Dal 2017 fino 15 marzo scorso, Gabriella Stramaccioni ha sostenuto i percorsi delle persone carcerate come Garante dei diritti della persone private della Libertà per il Comune di Roma. Una vita da sportiva prima e da dirigente dell’UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) poi, Gabriella conosceva il carcere sia per l’aspetto sportivo sia per la sua lunga esperienza nell’Associazione Libera. La incontriamo in una mattina primaverile, in uno storico palazzo del Centro Storico romano, per parlare della sua esperienza appena terminata. Infatti, non senza polemiche, l’incarico di Gabriella non è stato riconfermato dall’Assemblea capitolina, che le ha preferito l’attivista dei diritti umani Valentina Calderone. Ma i cinque anni di lavoro intenso e capillare, sempre dalla parte delle persone detenute anche e soprattutto durante il periodo dell’emergenza Covid, non sarà cancellato e speriamo sia portato avanti con la stessa capacità e precisione. Dall’esperienza di Gabriella Stramaccioni sono partite anche importanti denunce a cui la Procura della Repubblica di Roma ha dato seguito: l’ultima, qualche settimana fa, riguardante la morte nel 2021 di Abdel, giovane tunisino rinchiuso al CPR di Ponte Galeria e deceduto in stato di contenzione presso l’Ospedale romano San Camillo. La più nota inchiesta riguarda l’appalto di vitto e sopravvitto al Carcere di Rebibbia, forniture affidate sempre alla stessa ditta, di cui aveva fatto denuncia anche la Polizia Penitenziaria riportando un articolo del quotidiano Domani (https://www.poliziapenitenziaria.it/carceri-italiane-il-business-del-vitto-appalti-vinti-sempre-dalla-stessa-azienda-a-cifre-stracciate/); la Procura della Repubblica, su sollecitazione di Gabriella, è intervenuta nel gennaio scorso. Ma soprattutto, Gabriella in quanto Garante ha sempre denunciato i tanti, troppi suicidi nella carceri romane e italiane, frutto di un sistema punitivo che non ha niente di sociale e di rieducazione.
Che cosa hai imparato, hai capito da questa esperienza, considerando che il carcere è un possibile percorso di crescita per la società e che intorno ad esso dovrebbe migliorare se stessa?
Ho capito che da solo il carcere non ce la fa, da solo è un’istituzione totale che produce soltanto violenza e cattiveria, perché non è strutturato, e secondo me non lo sarà mai se continua così, a svolgere la funzione rieducativa che l’Articolo 27 della Costituzione comunque ci indica. Il carcere per funzionare ha bisogno di tante componenti, in primo luogo della società civile e delle istituzioni a tutti i livelli, oltre che dell’associazionismo. Solo se si mettono in moto insieme questi elementi, facendo un lavoro in comune, si può fare in modo che, per esempio, il grande numero di persone che sono in carcere per quella che io definisco detenzione sociale possano avere un altro sbocco. Si parla di carcere, secondo me, troppo per il regime del 41bis, che è un problema da affrontare e sul quale ho anche le mie riflessioni, ma è un regime che riguarda solo 700 persone in tutto il paese. Abbiamo poi migliaia e migliaia di detenuti che stanno in carcere con pene al di sotto dei quattro anni, che potrebbero andare in misure alternative immediate se ci fosse un’organizzazione della società adeguata. Ci sono tantissime persone imprigionate per problemi di tossicodipendenza e che dovrebbero essere curate; ci sono persone che sono dentro per problemi di natura psichiatrica, il carcere molto spesso serve a nascondere queste persone dalla società, quando invece dovrebbero essere curate e prese in carico dai servizi psichiatrici dei loro territori. Invece questo non si realizza: ecco quello che ho verificato di persona, il carcere alla fine diventa una discarica umana, dove mandare tutto quello che la società non sa affrontare. Allora, si può pensare di avere questi numeri così alti di persone che non dovrebbero essere imprigionate? Io penso di no, per fare questo c’è bisogno di utilizzare le misure alternative, basterebbe applicare le leggi che già ci sono, già così almeno 20.000 persone sarebbero fuori dalle carceri. Bisogna mandare a casa tutte le donne che hanno figli e le donne in stato di gravidanza; si possono mandare alle misure alternative, applicando l’Articolo 21 cioè fare uscire la mattina e rientrare la sera per andare a lavoro, le persone che stanno facendo un buon percorso di miglioramento e di socializzazione all’interno del carcere, anche in presenza di pene lunghe. Tutte queste misure già esistenti, se applicate, svuoterebbero il sistema carcerario e alleggerirebbero una struttura che è veramente pesante e crea problemi a tutti coloro che ci lavorano. Non c’è solo il problema dei detenuti, ma anche di quelli che detengono: ho visto poliziotti della penitenziaria in grande difficoltà, educatori in burn out, ho visto tante situazioni di disagio che comunque il carcere provoca. C’è una carenza di personale pazzesca, faccio l’esempio di Rebibbia reclusione (dove ci sono le lunghe pene), quando sono arrivata più di cinque anni fa ho trovato 9 educatori mentre ora ce ne sono 2. Al carcere di Casal del Marmo non c’è un direttore fisso da anni, cosa che crea problemi proprio alla struttura. Ho imparato dal carcere che bisogna lavorare insieme, oltre che bisogna a volte aggirare gli ostacoli, come per i senza dimora. A Roma non si riesce ad accedere alle misure alternative perché i senza dimora non hanno il domicilio all’esterno e serve indicare al magistrato dove vanno. La maggior parte delle persone non hanno reati importanti alle spalle dovrebbero uscire, il recupero sociale si fa meglio all’esterno che in carcere. Purtroppo i posti pubblici sono pochissimi, i senza dimora non hanno la possibilità economica di provvedere a pagamento. Voglio lasciare un dato: al 31 marzo del 2022 delle persone detenute solo il 10 per cento aveva il diploma superiore, vuol dire che la maggioranza dei carcerati sono analfabeti o quasi. Questo ci interroga sull’educazione pubblica del nostro paese, ci invita a lavorare sulla dispersione scolastica. Non dico che chi non va a scuola va a finire in carcere, direi un’assurdità, però è chiaro che la mancanza di studio possa aiutare alla degenerazione di alcuni fenomeni, soprattutto in alcuni territori.
Ti vorrei chiedere di ricordarci il costo del carcere, almeno nel Comune di Roma. Tu hai portato in evidenza il problema degli appalti e del sopravvitto, ora sotto inchiesta della Procura di Roma
Ogni giorno, a persona, il carcere costa allo Stato 200 euro, ma sul vitto si spende 2,39 euro; c’è qualcosa che non funziona, spiegatemi il resto dove va. Poi non tutti sanno che ogni detenuto paga allo Stato ogni fine mese 120 euro per vitto e alloggio, e chi non riesce a pagare questa cifra direttamente in carcere, esce con il debito di giustizia. Si esce dal carcere per esempio accumulando il debito di quattro anni per 120 euro al mese e lo devo restituire: questo è il motivo per cui molti ex carcerati non hanno contratti regolari sennò viene prelevato il loro debito di giustizia. Su questo andrebbe fatta un’operazione di verità, perché inficiare ulteriormente la loro possibilità di riscatto, ci vorrebbe meno ipocrisia e guardare i problemi per quello che sono. I costi del carcere sono elevatissimi, ogni volta che sento parlare di sovraffollamento non sento mai affrontarlo seriamente, la risposta generale è costruire nuove carceri, ma sulla costruzione di nuove carceri, così come sulla questione del vitto e sopravvitto, si sono fatti grandi affari in questo paese, tutti secretati e tutti gestiti sempre dai soliti noti. Per il vitto e il sopravvitto è così da novant’anni, una gestione diciamo opaca all’interno degli Istituti. Provenendo da Libera e conoscendo il contesto corruttivo, l’anomalia mi è subito saltata agli occhi: solo a me è sembrata una situazione anomala? Spero che questa indagine che ho portato avanti e che mi è costata la riconferma possa almeno far venire alla luce uno spaccato che la dice lunga sul nostro sistema penitenziario.
Vorrei parlare del tema della carriera deviante, forse non così lontano dalla vita delle persone; lo spauracchio della carcerazione, la legge usata in termini sociali per risolvere conflitti, forse non è lontana da ciascuno di noi.
In questo paese c’è troppo penale e poco sociale, abbiamo troppe leggi penali che portano direttamente al carcere. Ogni problema lo risolviamo con la legge sul carcere, l’abbiamo visto con la legge sulle droghe, con la legge sull’immigrazione: è diventato reato arrivare in Italia. Bisogna andare verso una maggiore depenalizzazione per evitare altre penalità: il carcere è il luogo dell’addestramento della criminalità. Arrivano alla carcerazione persone che non sono strutturate dal punto di vista personale, l’ho visto magari con i giovani per problemi di droghe, che in carcere hanno maggiori probabilità di entrare in contatto con strutture più corpose da un punto di vista criminale. Io ho visto tante di queste situazioni, per assurdo stiamo fornendo manodopera alla criminalità; se esci dal carcere con la fedina penale intaccata, hai un marchio che ti pregiudica la ripresa in un mondo normale. Si esce dal carcere con un debito di giustizia che inficia il percorso sociale.
Il carcere viene agito, a livello immaginario, come la soluzione dei reati, soprattutto quelli gravi per l’opinione pubblica come la pedofilia, la mafia, la violenza alle donne; poi le statistiche dicono che i reati sono tutti in diminuzione da molti anni, tranne la violenza alle donne, che non si vuole affrontare come questione culturale. Il mostro in prima pagina è sempre importante: come si diventa il mostro?
Mi è capito di incontrare detenuti consapevoli di essere casi mediatici, uno addirittura me l’ha detto: “io sono un caso mediatico”. Io ho visto che la maggior parte di queste devianze scaturisce dall’abuso delle droghe, c’è un problema molto forte che è sottovalutato nella nostra città dove gira tanta droga, tante sostanze che annebbiano il cervello. Un afflusso di sostanze che viene poco analizzato, nel momento che trovi un contrasto alle droghe ne viene fuori un’altra. Un caso recente è il pazzo che ha ucciso le tre prostitute: era completamente fatto, non aveva più il controllo di se stesso e non poteva più controllare i propri istinti, soprattutto se ci sono delle armi è pericoloso. Stiamo andando verso il possesso individuale di armi, l’arma diventa uno strumento di difesa e potremmo arrivare forse come gli Stati Uniti, dove ognuno va a comprarsi la pistola che vuole e se la porta dietro, il momento di sballo ti capita e spari a chi ti pesta il piede. Questa carriera deviante rischiamo che venga alimentata dalla cultura attuale: si parla poco di prevenzione, si parla poco di pace, di mediazione penale, di conflitti gestiti con le dovute cautele. Ci sono troppo elementi che non sono sotto controllo in questa società e stanno diventando sempre più pericolosi. Sta iniziando lo spirito emulativo: il tirare l’acido in faccia alle donne che sembrava una cosa assurda, conosco la persona che per prima ha iniziato questa pratica, ora sembra quasi una moda. Le baby gang fanno emulazioni da giovanissimi che sta prendendo la testa delle persone; se non c’è una buona base culturale, non sei strutturato e se non capisci a cosa vai incontro… Io dico che è meglio che il carcere lo conoscano tutti all’esterno, sono una fautrice delle scuole in carcere, gli studenti devono venire in carcere e parlare con i detenuti, deve essere un luogo aperto, per conoscere quel mondo e capire come ci si può arrivare in maniera semplice e non controllata.
Pochi lo sanno ma quando qualcuno non detenuto entra per qualche motivo in carcere deve lasciare tutte le sue cose, anche i fazzoletti. In carcere non sei una persona, non porti dentro niente di te.
Sì, in carcere non sei una persona, si assiste a una progressiva infantilizzazione del detenuto: deve fare la domandina, deve chiedere tutto in ino. Vai ancora avanti con i pizzini, in carcere non si usa il computer, si deve sempre scrivere egregio, ossequi, eccetera. Non puoi mai dire una cosa per come è, tutto è ovattato e reso in un linguaggio infantile, il carcere crea una regressione anche dal punto di vista culturale, se non c’è un intervento esterno questi fenomeni proseguono. In carcere quasi nessuno ti guarda negli occhi, c’è il timore di incontrare lo sguardo, hai paura e stai in uno stato di difficoltà esistenziale. È stato esemplificativo il periodo del covid, io sono entrata tutti i giorni e c’ero solo io e il prete, ho visto il carcere vuoto, silenzioso, dove non esiste relazione. Era un girone infernale, dove impazzire è la prima cosa che ti viene, perché non ce la fai a sostenere quel tipo di claustrofobia all’infinito. Per questo stanno aumentando i suicidi, perché nella privazione della libertà e di contatti con l’esterno, di mancanza di futuro, la depressione prende. Ogni volta che sono uscita dal carcere di Regina Coeli avevo il magone, sono uscita molto provata nell’incontrare lì, tutti i giorni, il dolore. Penso di aver fatto il massimo di quello che potevo sostenere anche dal punto di vista psicologico.
Una storia che ti è rimasta, emblematica del percorso della persona, qual è? Inoltre, sappiamo pure che chi ha mezzi economici il carcere può anche evitarlo.
Non sempre, ma sei hai avvocati buoni ti possono permettere di uscire in poco tempo, magari ti trovano il domicilio, il contratto di lavoro, diciamo che sei facilitato rispetto a chi ha l’avvocato d’ufficio, queste cose capitano con molte più difficoltà. Ci sono tante storie da raccontare, mi ha impressionato la storia della ragazza che ha ucciso i due bambini (Alice Sebesta il 18/09/2018 nel Carcere di Rebibbia) a Rebibbia: lei era stata fermata in macchina con un nigeriano, nei pannolini dei 2 bambini piccoli hanno trovato un grosso quantitativo di droga, hanno arrestato lei e portato in carcere lei e i figli, non quello che li accompagnava, dato che la ragazza dichiarò che la droga l’aveva portata lei. Era chiaro che le dichiarazioni fatte erano strumentali, chiunque ci sarebbe potuto arrivare tranquillamente che forse non era colpa solo sua. Lì c’è stato un errore, secondo me, anche da parte della sua difesa, che le ha fissato il domicilio presso un ragazzo nigeriano a Napoli. Lei era terrorizzata dai nigeriano perché aveva ricevuto minacce per i figli, le avevano detto che se non faceva quello che le dicevano avrebbero fatto fare una brutta fine ai bambini, li avrebbero utilizzati per i riti vodoo, e questa donna non ha retto. La mattina che ha deciso di far questo omicidio, con un lenzuolo ha fatto una croce, come se si fosse preparata mentalmente. Per lei l’uccisione dei suoi figli è stata un gesto di liberazione. Una cosa così drammatica credo non si sia mai verificata a livello mondiale. Poi si è venuto a dimostrare che quelli che l’accompagnavano erano dei grandi trafficanti di droga e che lei trasportava droga per loro, alla fine lei era una vittima di tratta, ne ho incontrate tante di donne così. Le donne sono il 4 per cento della detenzione, hanno delle caratteristiche criminali molto residuali rispetto agli uomini. Questo ci dovrebbe interessare per una valutazione generale, mi sembra che solo una donna sia al regime 41bis e pochissime in alta sicurezza; la maggior parte delle donne che hanno commesso reati l’hanno fatto per mariti e figli, per i contesti familiari, in genere sono reati legati a frodi fiscali o droga; la maggior parte delle donne sudamericane vengono utilizzate come corrieri della droga, sono donne molto giovani. La detenzione femminile andrebbe secondo me analizzata diversamente, andrebbe accompagnata diversamente perché ha meno pericolosità sociale. Le donne difficilmente usano armi, difficilmente compiono omicidi se non per difesa. La violenza è una questione di genere maschile.
Leggevo una ricerca sul fatto che invitava a riflettere che i crimini sono perlopiù commessi da uomini.
Il 4 per cento è il dato della detenzione femminile, appunto, rispetto a quella maschile. Ci sono quattro carceri femminili a livello nazionale, solo per donne, a Roma, Venezia, Pozzuoli e Trani. Poi ci sono altri tredici istituti in cui la parte femminile è all’interno del carcere maschile, come Civitavecchia e Latina, e questo comporta tutta una serie di privazioni e limitazioni perché il carcere femminile è pensato con una serie di servizi e strumenti, come Rebibbia femminile, mentre il carcere femminile all’interno del carcere maschile è una sezione e come tale manca sempre di qualcosa, ad esempio una cosa che può sembrare una stupidaggine: non c’è il bidet, cosa che invece la legge prevederebbe, e sappiamo come è importante per l’igiene intima femminile poter utilizzare anche il bidet.
Anche perché fare una doccia in carcere non è una cosa serena…
No, non è una cosa serena, non c’è l’acqua, oppure non c’è l’acqua potabile o l’acqua calda, ad esempio ora a Rebibbia nella maggior parte de padiglioni non c’è l’acqua calda. Quello che a noi fuori sembra normale, in carcere non è normale, non c’è nulla di normale. Devi cambiare completamente abitudini, anche per quello che è elementare: poter bere l’acqua dal rubinetto non lo puoi fare. Non si possono portare forbicette, pinzette. Anche la morte non è normale, la maggior parte dei suicidi avviene per impiccagione o con i fornelletti del gas. Non si possono usare le piastre elettriche per motivi di sicurezza, quindi i fornelletti a gas sono usati anche per suicidarsi.
L’ultima domanda che ti vorrei fare è sui bambini e le bambine in carcere: cosa succede quando una donna ha dei bambini piccoli?
I minori possono stare in carcere figli fino a quattro anni. Quando ho iniziato questo lavoro c’erano 18 minori a Rebibbia femminile, oggi ce ne sono 2, tra l’altro figli di ragazze Rom. Dobbiamo affrontare la questione dei bambini in carcere partendo dalla questione Rom, altrimenti non ne veniamo fuori. La maggior parte delle mamme che entrano in carcere con i bambini, il 95 per cento, sono donne Rom. Molte di loro sono donne che fanno molti figli anche per evitare il carcere, come faceva Sophia Loren nel film Ieri oggi domani di Vittorio De Sica. L’ultima per cui abbiamo avuto problemi a trovare la locazione in comunità ha dieci figli, questa donna ha un fine pena nel 2047, con tutti i furti arriva a una pena pazzesca. Il loro problema è fondamentalmente la mancanza di residenza esterna, mentre per le italiane e altre si riesce ad attivare le misure alternative al carcere, ad esempio con La Casa di Leda abbiamo risolto moltissimo, anche perché il magistrato di sorveglianza del carcere femminile ha lavorato proprio perché nessun bambino crescesse in carcere, e con lui mi sono trovata benissimo: ogni volta che arriva una mamma lui subito trova la misura alternativa. Addirittura ha autorizzato una donna a scontare la pena in un campo Rom, poi mi ha mandato a verificare come andava.
Il problema lo abbiamo quando queste donne hanno lunghe pene e vanno in comunità ed evadono. Alla seconda, terza evasione, il magistrato non ti riconosce più la misura alternativa, è un problema grosso secondo me, non di facile risoluzione. La legge Siani, che prevede che automaticamente non entri proprio in carcere in presenza di figli piccoli, potrebbe aiutare, ma non permette di capire quella che è la situazione delle donne Rom e dei loro bambini. La maggior parte dei furti sono fatti dalle ragazze, a partire dal contesto familiare. Mi è capitato un caso per cui mi vengono ancora i brividi, una ragazza con due figli nati ciechi, perché il marito era in carcere, lei per non finire in carcere si è fatta mettere incinta dal fratello e dal cugino: una storia di violenza senza precedenti, questi due bambini sono nati ciechi.
Io conoscevo un ragazzo Rom che, colto in fragrante durante un furto, è stato buttato di sotto da una impalcatura, dal quarto piano, si è salvato dopo un periodo di coma. Poi conosco un uomo Rom al quale hanno tagliato la gamba in carcere ma non è stato un intervento fatto bene da un punto sanitario.
Probabile, la sanità in carcere è un problema, vengono annullate continuamente le visite mediche all’esterno, mancano le scorte per portare fuori i detenuti, questa è l’ultima segnalazione che ho portato all’attenzione della Presidente del Tribunale di Sorveglianza. Però voglio fare un’ultima considerazione: alla situazione attuale, a condizioni economiche attuali, agli stanziamenti attuali, rispetto alla legge attuale, si potrebbe fare molto di più. Si potrebbero ottenere maggiori risultati, c’è proprio un problema di sciatteria istituzionale, di mancanza di controllo. Io penso che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia uno dei peggiori dipartimenti, ha un turn-over che è troppo eccessivo, io ho incontrati cinque capi dipartimento in cinque anni, è un cambiamento eccessivo che non permette un’organizzazione concreta. La mancanza di personale è cronica, la mancanza di direttori è cronica: c’è un problema di dipartimento che non ha in mano la situazione. Contano le carriere personali, dove un capo dipartimento del DAP è equiparato al capo della Polizia e prende lo stipendio più alto pagato dallo Stato. Io non posso più sentire capi dipartimento DAP che devono ancora imparare, che devono capire, con 400.000 euro devi arrivare che hai già capito e con delle soluzioni. È la più alta indennità dello Stato, devi arrivare preparato.
Un’immagine positiva che esce dalla tua esperienza quale è stata?
L’università: Perrone che ha preso la quarta Laurea, un signore che è entrato in carcere per un reato mafioso, un uomo completamente cambiato a cui ancora non hanno dato il permesso di uscire. È un uomo colto e non è più la stessa persona di prima; ne ho incontrati tanti, in coloro che hanno studiato in carcere ho visto un cambiamento radicale, su questi la magistratura di sorveglianza dovrebbe interrogarsi e non applicare la legge così come è schematica, ma incontrare la persona ora e vedere il cambiamento. Sono passati trent’anni dal suo crimine, Perrone ha rotto qualsiasi collegamento, ora ha una moglie, ha fatto un figlio con la fecondazione artificiale, è un’altra persona. Ha preso quattro lauree, diciamo che qualche base ora ce l’ha.
Possiamo dire che c’è quasi una vendetta istituzionale dello Stato?
Sì, perché è più facile, comporta meno lavoro, è più facile usare la vendetta che il recupero, io dico sempre: più sociale e meno penale.
Speriamo che qualcuno ti ascolti, grazie per quello che hai fatto.
Grazie a Comune per aver dato tanto spazio ai problemi relativi al carcere – o, meglio, al problema carcere – e all’impegno di Gabriella Stramaccioni a farli emergere con chiarezza e ad impegnarsi ad affrontarli. Lavorando come volontaria a Rebibbia Femminile ho avuto occasione di conoscerla e, soprattutto, di sentire dalle donne detenute quanto contassero su di lei.