Quando si parla di persone che vanno in cerca di qualcosa da una terra all’altra, e poi di altre persone che le vedono arrivare «in casa propria», la semplificazione e l’azzeramento della memoria possono rivelarsi perfino più letali della lingua e della spada. Per rendersene conto facilmente, si provi soltanto a porsi le più ingenue e sostanziali delle domande inerenti alla libertà del muoversi: da quando, perché e a chi appartiene la terra di qua o di là dal mare? L’introduzione al Rapporto sull’accoglienza diffusa in Italia 2020, curato dalla redazione di Comune-info, ricorda alcune delle grandi questioni aperte che riguardano la narrazione sulle migrazioni del nostro tempo e si interroga su come provare ad allargare gli spazi che a mani nude i migranti aprono ogni giorno nei muri delle frontiere che separano le nostre speranze dai mondi nuovi che potremmo costruire insieme
Quello che avete sotto gli occhi è un insieme di pagine che raccontano da diverse prospettive, nel modo più semplice possibile, una realtà segnata da rapidi mutamenti e processi complessi. Spesso quella realtà non è come la si immagina o la si vorrebbe far apparire, ma rivela sempre una dimensione troppo complessa per essere affrontata da un solo punto di vista. Nel leggere quel che segue, sarà bene tenerlo presente, così come va ricordato che quando si parla delle persone di cui ci occupiamo qui ci sono molte cose che con gli occhi non si riescono vedere. C’è bisogno del cuore.
Non è sempre facile tenerlo a mente, in particolare quando si cerca, come nel nostro caso, di restare ben lontani dalla cultura del vittimismo. E ancor meno facile diventa nel tempo in cui l’attenzione si brucia fulminea e l’abitudine a semplificare si fa compulsiva. La crescita smisurata del profilo mediatico di ogni aspetto della vita allarga intanto, giorno dopo giorno, la distanza tra la realtà e la sua cosiddetta percezione. Non si può non esserne consapevoli. Anche per questo ci auguriamo che i testi, e le straordinarie immagini di Giovanni Izzo, sparpagliati in queste 150 pagine, un po’ d’aiuto alla volontà di capire meglio ciò che accade e al desiderio di cambiare molto in profondità il mondo e noi stessi riescano a fornirlo.
Quando si parla di persone che vanno in cerca di qualcosa da una terra all’altra, e poi di altre persone che le vedono arrivare «in casa propria», la semplificazione e l’azzeramento della memoria possono rivelarsi perfino più letali della lingua e della spada. Per rendersene conto facilmente, si provi soltanto a porsi le più ingenue e sostanziali delle domande inerenti alla libertà del muoversi: da quando, perché e a chi appartiene la terra di qua o di là dal mare?
Al di là della specificità devastante della recente pandemia (se continueremo a parlare solo del virus, alla fine esisterà solo il virus) e della penetrazione storica dei veleni nazionalisti, nei primi decenni del terzo millennio designare uno spazio come “nostro”, in contrapposizione a uno spazio “di altri”, comporta una distinzione geografica opinabile come forse non mai. Non solo perché farlo potrebbe essere del tutto arbitrario ma anche perché, ad allungare un po’ lo sguardo sulla storia – e in modo particolare su quella delle migrazioni – il rischio di varcare più di una frontiera del ridicolo diventa sensibile.
Il problema della designazione dello spazio, del territorio di ricerca o di intervento, torna in campo anche se proviamo a interrogarci in modo critico sulla funzione narrativa e la prospettiva di un Rapporto, la sola definizione classificatoria posta nella nostra copertina.
Sarà utile annotare che un resoconto sullo stato delle cose di una pratica politica – quella dell’accoglienza diffusa di chi migra, cerca rifugio o chiede asilo in Italia – non dovrebbe poter inficiare almeno un rimando essenziale al secondo valore semantico della parola “rapporto”, essendo il primo, appunto, “resoconto”.
Si tratta del significato di relazione o connessione reciproca che intercorre tra più azioni, condizioni, situazioni, fenomeni. La relazione più importante, nel contesto che proviamo a raccontare, cioè in tema di migrazioni o fughe dalle persecuzioni, dalla guerra o dai disastri ambientali, è certo la relazione sociale che assume il nome di razzismo. Una parola pronunciata ormai quasi solo per essere negata, essendo associabile, in modo evidente, solo ai periodi più abietti della storia umana. Eppure, a saperla guardare davvero senza ipocrisie, dalla prospettiva giusta e con gli occhi di chi perde un figlio caduto da un barcone, quella parola sembra più attuale che nel secolo scorso. Con tutte le varietà di aggettivo che possiamo affiancarle e le connotazioni discriminatorie, segregazioniste o violente del caso, forse mai come oggi dovremmo domandarci se stiamo correndo incontro a vele spiegate a uno dei periodi più cupi per quel che riguarda il razzismo. Oppure, forse più credibilmente, se da quei periodi non siamo mai usciti.
Un rapporto sociale
Il razzismo, ha spiegato Annamaria Rivera ormai quasi vent’anni fa in “Estranei e Nemici”, “non è solo un’ideologia – cioè un insieme di idee, opinioni, rappresentazioni, stereotipi, pregiudizi – né solo un sistema di idee che orienta l’azione, ma un concreto rapporto sociale (…) sorretto a sua volta da un potente apparato simbolico in grado di agire direttamente sul sociale, producendo e riproducendo la diseguaglianza e la dominazione”. Ci pare, questo, un punto di non ritorno nell’approccio a una delle questioni più significative e discusse del nostro tempo. Non sono tuttavia frequenti, a dirla francamente, i casi in cui lo si considera tale. Che si tratti di approssimate news-analysis come di tele-comparsate sull’ultimo “evento” di cronaca capace di scatenare i social e bucare lo schermo dell’indifferenza, quando si parla di razzismo la dimensione concreta della relazione sociale tende a scomparire. Negli ultimi tempi, poi, lascia il posto quasi sempre a sentimenti che celano la natura strutturale e gran parte della sostanza del tema. Non ci interessa rilevarlo perché inclini alla saccente volontà di mettere i puntini sulle “i”, il punto è che parlare di “violenti sentimenti” induce all’illusione che essi possano essere mitigati con un po’ di buona volontà. Accade sempre più spesso, oggi, con il caso di un oltremodo generico utilizzo del termine “odio”, una sorta di condimento al passo con i tempi per ogni linguaggio progettuale carente di analisi e idee.
Abbiamo fatto sopra quella precisazione sull’apertura a una pluralità di descrizioni per indicare un “Rapporto” proprio perché il nostro Osservatorio – qui come nel lavoro di ogni giorno che dà vita alla testata “Benvenuti ovunque” all’interno di “Comune-info” – cerca di non limitarsi a fornire solo cifre e presunti dati oggettivi da confrontare e interpretare. L’idea di dover disseminare sempre e comunque un rapporto con una pletora di tabelle, grafici “impattanti”, percentuali e rilevazioni statistiche risponde spesso non all’innamoramento per la scienza dei numeri ma alle pressanti esigenze di altre frequenti semplificazioni. Si tratta di quelle “giornalistiche”, inclini a “sparare” cifre il più eclatanti possibile, magari soltanto per provare a dar senso a un titolo pensato in modo frettoloso. Chiunque abbia lavorato, in tempi più o meno recenti, in un quotidiano mainstream sa che si insegna spesso così il duro mestiere del fare inchiesta, arrivando perfino, quando i numeri significativi non sono, a praticare qualche spericolato aggiustamento. L’informazione sulla pandemia, poi, eleva tentazioni del genere a livelli impensabili quanto indecenti.
La realtà della narrazione e dell’interpretazione delle vicende migratorie, a cominciare da quella che può cominciare ma non dovrebbe mai concludersi nell’accoglienza o nel respingimento, richiederebbe un rigore del tutto differente. Se non altro perché, quasi sempre, i numeri mostrano solo la parte emersa di processi profondi e spesso sotterranei, ma principalmente perché, a “giocare” tanto con i numeri, il rischio di scivolare nella disumanizzazione, la forma patologica per antonomasia della rappresentazione mediatica dei migranti, è sempre altissimo. Quante e quali persone in fuga dalla tragedia albanese conclusero la loro esistenza tra i flutti del Canale d’Otranto nel lontano naufragio della Katër i Radës del 1997 non si è mai saputo. Eppure, a distanza di oltre vent’anni, possiamo dire che l’affondamento della nave “fantasma” da parte di una corvetta della marina militare italiana, argine al disperato tentativo di approdo sulle spiagge pugliesi, resta forse, insieme ai lager libici, il simbolo più potente della relazione nefasta tra l’informazione e quel che realmente accade in merito alla cosiddetta “minaccia” alla sicurezza dell’identità nazionale e delle coste italiche.
L’ossessione identitaria
Tra i molti cavalli di battaglia delle argomentazioni poste a sostegno di quelle presunte minacce, nell’immaginario razzista cresciuto notevolmente in questi ultimi anni in tutta l’Europa, spiccano ancora le logiche emergenziali e, appunto, la difesa dell’identità. Le prime sono ormai cronicizzate da decenni in ogni aspetto della vita politica e sociale, tanto che, non soltanto per quel che riguarda migranti e rifugiati, tutti facciamo una certa fatica a ricordare un tempo in cui la presenza di emergenze non sia servita a giustificare ogni scelta economica, politica e sociale dei governi. Per quel riguarda la grande opzione identitaria, il discorso si allargherebbe a dismisura, ma in questa sede sarà sufficiente limitarsi a ricordare che essa resta l’asse portante di mille nefandezze tra le quali vanno annoverate certo la lettura etnicizzata delle nostre società, l’idea delle comunità “straniere” condannate per l’eternità al peccato delle origini e gran parte delle pratiche discriminatorie e di esclusione presenti.
L’identità, ha scritto in passato Marco Aime, è l’ossessione contemporanea. Laddove la si voglia ostinatamente far entrare in gioco, ignorando la sua straordinaria capacità di fungere da maschera alla discriminazione e al razzismo, occorrerebbe comunque definirla in relazione agli altri: si è in sostanza quello che gli altri non sono. A rivelare poi la perseveranza di certe ossessioni e delle loro più strette parentele, per uscire solo un momento dai nostri temi, basti l’ansia di identificazione con la quale in questi ultimi mesi pandemici si appiattisce ogni pur timida critica alle misure del distanziamento “sociale” o securitario apponendole l’etichetta onnivora di “negazionismo”.
Per tornare infine agli aspetti centrali del nostro Rapporto, e a proposito di concetti che sarebbe assai meglio aprire invece che etichettare, ci sarebbe da ripensare e ricostruire nelle pratiche l’idea stessa di accoglienza dei migranti e dei rifugiati che arrivano sul suolo europeo. Ci aiuta a indicare un possibile percorso proprio l’aggettivo un po’ generico su cui cade senza esitazioni l’accento di questo nostro lavoro: “diffusa”. Chiara Marchetti lo declina in un articolo che ha il grande merito di ripartire da un rapido excursus di memoria per approdare a un’affermazione rilevante: la questione dell’accoglienza non investe solo chi la cerca o la mette in pratica, l’accoglienza o la sua negazione riguardano tutti. La leva che muove la sua disseminazione in un periodo non circoscritto e nei diversi territori serve dunque a cambiare la società, ancora prima che a “fare accoglienza”. Questa “diffusione” oggi può fortunatamente avvalersi del portato di diverse esperienze che, sebbene siano state ostacolate “con ogni mezzo necessario” dalle scelte politiche più recenti – per fare un solo esempio, si pensi al caso di Riace -, restano di grande interesse e molto significative. Stiamo parlando non di un modello ma di un possibile sistema che non ha nulla da concedere ma sa riconoscere i diritti universali dentro contesti ben ancorati alla propria dimensione territoriale.
La geografia di un territorio, si sa, non vive nelle mappe che lo raffigurano ma nelle relazioni tra le persone che lo abitano. Il sistema che si ipotizza saprà dunque valorizzare la propria autonomia evitando di chiudersi in se stesso e rimanendo lontano da auto-referenzialità o iper-specialismi, un sistema pertanto in grado di evitare il rischio di creare servizi molto speciali per categorie “svantaggiate” o magari solo scomode. Al centro di un sistema di accoglienza “diffusa”, come dovrebbe essere ovvio, non potranno che stare la piena affermazione dei diritti e delle dignità di persone viste finalmente come soggetti.
Una frontiera nella mente
È esattamente questo il punto di partenza da cui si dipana la trama che si sviluppa, ampia, nelle pagine che seguono. Il filo sotteso all’intreccio degli articoli parte da due punti di vista estremamente differenti, accomunati dall’indicare un elemento che difficilmente suscita l’attenzione di chi scrive di questi temi: una medesima fonte d’ispirazione. Il primo articolo, quello già citato di Chiara Marchetti, è ben ancorato al “che fare” ma si conclude invitando a ispirarsi a coloro che, di fronte agli shock e alle prove della vita, riescono a non rimanere identici a se stessi. In questo, viene precisato, migranti e rifugiati hanno tanto da insegnare. Da tutt’altra angolazione, con l’articolo successivo, arriva singolarmente lo stesso invito: forse dovremmo tutti ispirarci ai sogni assurdi dei migranti, dice John Holloway. Così come loro, per inseguirli, attraversano mari, fiumi e deserti e scavalcano barriere alte cinque metri, così noi dovremmo ribellarci alla realtà della dominazione che impone di condannare ogni speranza a diventare illusione. Quel che poi sembra perfino più grave è che quella realtà ci impedisce di vedere che stiamo costruendo nella mente una frontiera invalicabile tra l’ordine delle cose che esiste e il mondo che vogliamo. Tutti. Non si tratta, naturalmente, di indicare la resistenza e la tenacia dei migranti come un modello esemplare per tutte le lotte di portata più generale ma di riconoscere l’affermazione della loro piena soggettività in un cambiamento complessivo delle relazioni sociali.
Tutto quel che si racconta poi, nelle pagine articolate in una notevole pluralità di direzione degli sguardi che speriamo possiate leggere con calma e quando ne avrete voglia, può aiutare a comprendere in fondo solo una cosa: quanto sia indispensabile provare ad allargare gli spazi che a mani nude i migranti aprono ogni giorno nei muri delle frontiere che separano le nostre speranze dai mondi nuovi che potremmo costruire insieme.
Qui sotto il link per scaricare gratuitamente il Rapporto completo
Benvenuti
a cura della redazione di Comune 29 Novembre 2020
I testi, accompagnati dalle straordinarie fotografie di Giovanni Izzo, disseminati nelle 150 pagine del quaderno Benvenuti, qui (gratuitamente) scaricabile, sono il frutto di un’idea e di un’ambizione. L’idea: raccontare da diverse prospettive una realtà, quella dei rifugiati coinvolti in Italia in progetti di “accoglienza diffusa”, segnata da rapidi mutamenti e processi complessi. L’ambizione: essere un po’ d’aiuto alla volontà di capire meglio ciò che accade e al desiderio di cambiare in profondità il mondo e noi stessi. Il quaderno nasce dunque come Rapporto, ma ci siamo interrogati a lungo in modo critico sulla sua funzione: per questo Benvenuti raccoglie dati, analisi, descrizioni di importanti esperienze locali – da Santorso a Gioiosa Jonica (dove lo Sprar è gestito seguendo il modello proposto dalla giunta Lucano a Riace), passando per la provincia di Bolzano – ma anche molti approfondimenti con cui ampliare lo sguardo.
Benvenuti è un’iniziativa dell’Osservatorio sull’accoglienza diffusa Benvenuti Ovunque, promosso dalla redazione di Comune e dalla Rete dei Comuni Solidali, e raccoglie interventi di Chiara Marchetti, John Holloway, Roberta Ferruti, Rita Coco, Andrea Staid, Luca Di Sciullo, Marco Aime e Luca Borzani, Gian Andrea Franchi, Annamaria Rivera, Daniela Giudici, Alessandro Simoncini, Guido Viale, Simone Innico, Alessandro Triulzi, Marco Omizzolo, Gianfranco Laccone, Cronache di ordinario razzismo, Cinzia Pennati, Alessandro Ghebreigziabiher, Sara Forcella, Rosa Jijon e Francesco Martone, Carolina Meloni González
Benvenuti. Rapporto sull’accoglienza diffusa in Italia 2020Download
Il sommario completo del quaderno Benvenuti
Una storia che riguarda tutti Chiara Marchetti
Discorso senza nome John Holloway
Un’accoglienza nuova tra le macerie di quella vecchia Roberta Ferruti
Santorso è più bello dal Duemila Rita Coco e Roberta Ferruti
Il dovere dell’accoglienza Andrea Staid
Migra una persona ogni trenta Redazione di Benvenuti Ovunque
Distanziamento sociale con i migranti Luca Di Sciullo
Il big-bang dell’accoglienza Marco Aime e Luca Borzani
Gioiosa sull’esempio di Riace Rita Coco e Roberta Ferruti
L’accoglienza di prossimità Per cambiare l’ordine delle cose
Fare luoghi per incontrare corpi Gian Andrea Franchi
La lunga storia ignobile dei centri di detenzione Annamaria Rivera
Oltre i canoni vittimizzanti del modello umanitario Daniela Giudici
Spettacolo del confine e inconscio coloniale Alessandro Simoncini
Territori e migranti Guido Viale
Moria, il campo dei nessuno Simone Innico
Memorie migranti Alessandro Triulzi
La pandemia nelle campagne Marco Omizzolo
La memoria delle braccia Gianfranco Laccone
Il razzismo di ogni giorno. Straordinarie Cronache Cronache ord. razz.
Non ci sarà pace Cinzia Pennati
A sei mesi da te Alessandro Ghebreigziabiher
Tutta la felicità del mondo Sara Forcella
Commons in movimento e confini dell’immaginario R. Jijon, F. Martone
Da una terra all’altra. Intervista a Carolina Meloni González
Enza Talciani dice
Leggendo i vostri preziosi scritti mi si rende nitida la poca o nulla attenzione che la maggior parte dei cittadini italiani hanno nei confronti della migrazione e delle problematiche connesse. Mi duole molto!
Nella mia famiglia in anni lontani abbiamo avuto migranti verso le Americhe o in Cile . Soprattutto dopo l’ultimo conflitto che aveva lasciato distruzione e morte!