di Luciana Bertinato*
Ci sono almeno due buoni motivi per leggere insieme ai bambini Come giocavo, il lungo bellissimo racconto nel quale Mario Lodi ha descritto i giochi e i sogni della sua infanzia trascorsa a Piadena, un paese della pianura Padana, terra di cascine, filari di pioppi, campi di granoturco e girasoli attraversati dal fiume Oglio.
Qui d’estate l’orizzonte appare piatto e indistinto, mentre d’inverno “la nebbia tanta” avvolge tutto nascondendo case e campi, animali e persone. Con il suo inconfondibile stile pulito e poetico, il “nonno di Cipì” (così lo chiamano gli alunni della mia classe) ci riporta indietro nel tempo, precisamente negli anni Trenta, per aprire una finestra sulle tracce del passato affinché i bambini di oggi, attraverso la conoscenza dei giochi e della vita dei nonni, imparino a conservare una memoria collettiva. E per ricordare a noi adulti che “il gioco del bambino non ha pause, né vacanze, è un bisogno continuo di fare, conoscere, capire, creare. E’ un lavoro felice che stimola l’apprendimento, l’organizzazione del pensiero, la socialità”.
Questa lettura leggera, inoltre, offre la piacevole scoperta di Lodi bambino libero e felice, cresciuto a contatto con la natura e gli animali grazie a un legame profondo con la sua terra. Mario nutriva il corpo e la mente di giochi semplici, vissuti con gli amici con i quali condivideva le relazioni affettive e i conflitti che fanno crescere, aveva a disposizione spazi da esplorare mettendo in gioco tutti i cinque sensi e, soprattutto, un tempo lento, naturale, scandito dalla luce e dal buio, dalle condizioni atmosferiche e dalle stagioni. Gli ambienti dei suoi giochi erano il fiume, la strada, la piazza, il cortile, la casa; in particolare la cucina, la stanza da letto e la soffitta. Ogni stagione gli offriva spunti per giocare con tutto e la fantasia collettiva diventava la fonte di progetti esecutivi realizzati e vissuti intensamente.
All’aperto
Sulla strada il maestro giocava a “spanetta” con le monete da dieci centesimi di rame, rincorreva le trottole di legno, la palla e i cerchietti di ferro, gareggiava con le palline di terracotta comprate dal tabaccaio. Così descrive il “pendant”, uno dei suoi luoghi di gioco preferiti: “Era un terreno scosceso verso il fiume Oglio, tagliato verticalmente per diversi metri, un canyon dove noi combattevamo battaglie senza fine e senza tregua, ognuno dentro al suo gruppo a preparare archetti con frecce di canne, con passaggi frequenti da una banda all’altra e spie e catture e liberazioni. Mi ci trovavo da re. Io ero timido, non incline ai giochi violenti, ma in quell’atmosfera mi ci trovavo bene, ora in un gruppo, ora in un altro”.
Insieme agli amici osservava il lavoro dei fabbri e dei maniscalchi, saliva sul campanile eludendo la sorveglianza del campanaro intento a suonar le campane, per ammirare il paesaggio sottostante: “Da lassù il paese era tutto tetti, più piccolo di quel che pensavamo. La campagna era verde nel sole. Si stava bene lassù. C’erano i pipistrelli e i piccioni aggrappati al soffitto, tanto cielo e le nuvole vicine”.
Nei canali per l’irrigazione dei campi pescava con i coetanei catturando a vista anguille e pesci gatto, prima con il bilancino, in seguito con canna e lenza, persino con il “fiocco”. La campagna intorno era lo scenario di mille altri giochi: dalla finta cattura dei grilli, alla vera caccia alle allodole insieme al padre. Quest’ultima ha lasciato in Lodi una profonda convinzione tanto da indurlo a scrivere: “Credo che il mio rifiuto della caccia, venuto più avanti, abbia le sue prime radici in quel gioco cruento”.
Racconta l’esplorazione fantastica di un cortile, quello che vorrebbero tutti i bambini: “Il più bel cortile del mondo, che nessun architetto e nessun animatore di oggi saprebbe immaginare e progettare per i giochi. Un semplice cortile abbandonato di un’azienda edile”. Esso permetteva ai piccoli di scoprire ragni e scorpioni e, dopo i temporali, di cimentarsi nelle gare con flotte di barchette di carta dentro le pozzanghere. Poi un giorno il dono del padre: un mucchio di sabbia per tracciare le piste e giocare al “Giro di Francia” con palline colorate come corridori, un gioco di abilità e precisione che insegnò ai ragazzini le misure e il calcolo matematica. D’inverno quello spazio, dopo la nevicata, si trasformava in una vera e propria stazione sciistica, sulla quale i bambini tracciavano lunghissime piste da discesa da percorrere con una pala che fungeva da bob.
Grande è stata la sua passione per la bicicletta: da giovane ne smontava e rimontava i pezzi e, dai quattordici anni in poi, fece lunghe pedalate fino a Mantova, Cremona, Trento, Milano. Racconta: “Tornato da Cremona, dopo la scuola alle due del pomeriggio col treno, pranzavo in fretta e dicevo a mia madre che andavo a studiare in campagna”. In realtà da Piadena, dopo aver macinato una cinquantina di chilometri, raggiungeva Sirmione fermandosi a studiare sempre allo stesso posto, in riva al lago di Garda, sotto il “suo” ulivo.
I racconti del padre, il gioco più bello
Mario giocava a lungo anche in cucina inventando storie fantastiche con due burattini, ricevuti in dono da santa Lucia, e una sedia trasformata con la fantasia nel palcoscenico di un teatro immaginario. Con gli amici ideò il calcio da tavolo caratterizzato da regole complicatissime. La sera ascoltava i racconti del padre, costretto a rimanere in casa perché “uscire all’osteria era rischioso, in quei tempi, per chi come lui non aveva fatto atto di sottomissione al fascismo e non aveva voluto prendere la tessera, allora stava in casa a leggere o a dipingere”. Mario lo aiutava a preparare i colori e disegnava con i pastelli a matita film a soggetto e documentari su lunghe strisce di carta arrotolate “a pellicola”, purtroppo andate perdute.
La stanza da letto invece era lo spazio libero del sogno e dell’immaginazione, dell’ascolto del fruscio del vento, dei rumori e dei suoni. Il luogo dove scoprì il cinema durante un pomeriggio d’estate: “Da una fessura rotonda della finestra filtrava un raggio che proiettava sul soffitto le figure del cortile: il gatto che passava, le galline che razzolavano, la vicina che andava alla pompa a riempire il secchio. Disteso nella stanza buia, vedevo tutto quel che accadeva nella zona di cortile davanti alla finestra. Che Lumière avesse visto qualcosa di simile prima di inventare il cinema?”. Infine restava il mondo favoloso della soffitta, uno spazio misterioso tutto da scoprire!
Qui il maestro sviluppava e stampava le foto in bianco-nero, qui nacquero la sua passione per la musica, il giorno in cui trovò il vecchio mandolino di uno zio, e l’amore per i libri e i giornali politici nascosti, che gli rivelò una verità cercata a lungo: “Con la lettura de La fisiologia del piacere di Mantegazza feci piazza pulita, sul piano culturale, di ignoranze e tabù. Era la scoperta del gioco più bello: l’amore”.
C’è chi vi crede
Questa nuova edizione del racconto, uscito nel 1982 come ampia postfazione di un libro degli Editori Riuniti, è curata dalla “Casa delle Arti e del Gioco” in collaborazione con l’associazione Giochi Antichi.
Racchiude una bella sorpresa: alcuni disegni e acquerelli inediti del maestro. Ci regala inoltre il pensiero di uno dei pedagogisti e intellettuali tra i più grandi del nostro tempo: “Rifletto sulla storia del mondo ludico del bambino invaso dall’industria del profitto che neutralizza la fantasia col giocattolo meccanico in serie [….]. Mi chiedo che cosa sarebbe accaduto se un adulto ci avesse chiamato a giocare, in spazi organizzati, i suoi giochi. Cinquanta anni fa era una cosa inimmaginabile. Ora è una necessità, in attesa che la città o il paese ritorni a essere gente che si conosce e si aiuta, che ha una storia in comune. I bambini che giocano con l’animatore, cioè i più fortunati oggi, che bambini sono? Credo che anche (soprattutto) da qui debba prendere il via la ricerca per superare la disgregazione delle comunità e costruire un mondo naturale e sociale equilibrato, attraverso un progetto politico coerente e globale, con prospettive lunghe ma possibili, che ci impegni tutti. C’è chi dice che è tardi ormai. C’è chi vi crede”.
Fonte: magazine online, dedicato a chi insegna nella scuola primaria, “La Vita Scolastica” (che ringraziamo)
* Luciana Bertinato ogni giorno in bicicletta raggiunge ventidue bambini e bambine, in una classe terza a tempo pieno, alla Primaria “I. Nievo” di Soave (Verona), ma spesso le lezioni non si svolgono tra i banchi. Dal 1995 fa parte della Casa delle Arti e del Gioco, fondata da Mario Lodi a Drizzona (Cremona), che promuove corsi di formazione per insegnanti e laboratori creativi per bambini. Altri suoi articoli sono qui.
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