La spregevole escalation delle tanatopolitiche europee ci sta abituando ad associare ai corpi delle persone migranti ormai soprattutto l’aggettivo “recuperati”. L’ultima tragedia dell’Egeo, mentre ancora si piange la strage di Cutro, segnerà certamente una nuova impennata non certo soltanto numerica – e i numeri sembrano terrificanti – in quella escalation. Questo articolo di Annamaria Rivera, scritto poco prima dell’ultimo nefasto esito del naufragio delle strategie politiche europee, ci invita a riflettere proprio sul trattamento simbolico e politico dei e delle migranti dal punto dei visti dei corpi. Un punto di vista che valica, naturalmente, l’ambito degli sbarchi e del viaggio in mare per restituire dignità allo sguardo verso le persone migranti e i loro corpi nell’integrità della loro esistenza qui. È il tentativo rigoroso, seppur esposto a consapevoli rischi di schematismo, di azzardare una tipologia dei modi molteplici e difformi in cui sono percepiti, immaginati, trattati simbolicamente e rappresentati i corpi delle persone migranti o appartenenti a minoranze disprezzate cercando di cogliere alcune costanti. Ci sono dunque i corpi resi invisibili o esposti, “visibilizzati” strumentalmente all’eccesso per biechi calcoli politici. Ci sono i corpi reali occultati in favore di corpi immaginati e immaginari, sempre costruiti sulla base di stereotipi. E poi i corpi indistinti, affossati nel magma disumanizzante delle cronache fino a diventare solo numeri, cui fanno da contraltare, invece, quelli sottoposti alla schedatura o alla marchiatura, oggi in particolare dei rilevanti biometrici. Anche su questo fronte, com’è noto, i solerti scienziati della sorveglianza europea lavorano a salti di qualità di portata inaudita. Si tratta comunque di corpi alieni, i corpi degli altri e delle altre, quelli che siamo spinti a considerare facenti parte di un mondo altro, lontano, estraneo, alieno, come quello raffigurato dalla foto qui sotto. È una rappresentazione distorta, manipolata, l’esatto contrario di quel che vede chi ha ancora la dignità e il coraggio di guardare in uno specchio
Come ci ha insegnato l’antropologa Mary Douglas (1979: 109), il corpo è un «microcosmo sociale in relazione diretta col centro del potere». I corpi non sono mai neutri, sono sempre corpi sociali, cioè culturalmente plasmati per mezzo di pratiche educative, trasmissione di stilemi, dispositivi rituali: ogni cultura ha il proprio modello etico-estetico di corpo e proprie specifiche procedure di modellazione dei corpi.
I corpi degli altri e soprattutto delle altre sono sottoposti/e a un duplice vincolo: oltre a essere modellati dalla cultura di provenienza, dalle sue consuetudini, schemi culturali e pratiche sociali, sono percepiti, immaginati, rappresentati da agenti «endogeni», cioè dalle categorie sociali, dall’immaginario, dall’ideologia, dai poteri della società.
In particolare, il corpo del/della migrante è il «luogo geometrico di tutte le stigmate» (Sayad 2002: 345), imposte dalla società come «prodotto sociale che è tormentato, controllato, educato, allevato […]», che porta con sé un’identità sociale oggettivata dallo sguardo degli altri e per questo dominata.
Volendo azzardare una tipologia dei modi molteplici e difformi in cui sono percepiti, immaginati, trattati simbolicamente e rappresentati i corpi delle persone migranti o appartenenti a minoranze disprezzate, propongo uno schema che – pur prestandosi al rischio della generalizzazione e dell’astrazione – può permettere di cogliere alcune costanti.
Gli atteggiamenti e i dispositivi più consueti oscillano costantemente, mi sembra, fra l’invisibilizzazione e l’iper-visibilizzazione dei loro corpi. Nella realtà quotidiana, per strada, nei negozi, negli uffici, nei servizi pubblici, le persone immigrate, per lo più rese invisibili come forza-lavoro, d’un tratto divengono troppe, ingombranti, vistose, poiché percepite come invadenti, minacciose, anomale.
Come scrive Abdelmalek Sayad, è allora che la persona immigrata «fa esperienza del sospetto che lo segue ovunque», così che «ha la sensazione di essere costantemente sorvegliata, come si sorveglia un corpo estraneo» (Sayad, 2002, p. 273). Un esempio estremo di questa tendenza è stata l’abitudine delle forze dell’ordine italiane di costringere donne o ragazze romanì, sospettate di nascondere refurtiva o droga, a denudarsi per strada. In quanto de-umanizzate, non vengono considerate donne, quindi per loro non valgono le regole formali delle relazioni di genere, il senso del pudore, l’interdetto della nudità totale in luoghi pubblici.
All’opposto, nei cantieri, nelle fabbriche, nelle campagne, nelle case degli/delle «autoctoni/e», le persone immigrate in genere sono occultate dal velo del disconoscimento e dell’insignificanza: i media e le istituzioni, con qualche eccezione, raramente raccontano di questi corpi e della loro condizione di sfruttamento e di dipendenza, spesso estremi, a meno che non intervenga un evento eccezionale – di solito una rivolta – a squarciare il velo.
Quanto alle persone straniere, in maggioranza donne, che svolgono lavori di cura nel chiuso delle mura domestiche altrui, assai di rado si mette in luce che il loro lavoro, dequalificato, per lo più mal remunerato, è uno dei pilastri che hanno retto il Welfare State all’italiana.
Per fare un esempio, le retoriche intorno a «padroni a casa nostra» così come l’esaltazione dei prodotti tipici italiani e l’invito a valorizzarli occultano un dato della realtà incontestabile: buona parte di ciò che costituisce il «tipicamente nazionale» (dalle pizzerie al parmigiano doc, dai pomodori pelati agli agrumi) è il risultato del lavoro delle persone migranti, per lo più assai duro, al nero, malpagato. Soprattutto i braccianti e le braccianti sono spesso costretti/e a rapporti di lavoro e a condizioni di esistenza servili o semi-schiavili; in ogni caso sono sottoposti/e a una subordinazione multipla, poiché dipendono dai loro sfruttatori e dai caporali al loro servizio, non solo per il lavoro e il salario, ma anche per l’alloggio, il trasporto, lo status giuridico, a volte perfino per l’alimentazione e la sicurezza personale. Questa condizione di subordinazione espone le braccianti anche a ricatti, molestie e violenze sessuali.
All’opposto, quando si tratta di stranieri/e, la cronaca – come ho già detto – è sempre attenta a etichettare i presunti autori o autrici di reati o di semplici trasgressioni con l’indicazione della nazionalità, dell’“etnia”, eventualmente anche della religione, spesso perfino della loro posizione rispetto al titolo di soggiorno; mentre la cronaca è solita evitare accuratamente queste «informazioni» allorché una straniera o uno straniero hanno il ruolo di vittime e le esalta allorché sono vittime di altri stranieri/e.
Nei casi, poi, di stupri e femminicidi, il sistema d’informazione di solito tende ad enfatizzare quelli commessi da stranieri/e, spesso facendone oggetto di campagne allarmistiche.
Una seconda retorica è quella della stereotipizzazione: i corpi reali scompaiono in favore di corpi immaginati e immaginari, costruiti sulla base di stereotipi. Anche allorché il genere plurale o il nome collettivo cedono il posto al genere singolare, il più delle volte non si tratta di altro che di tipi, se non maschere, irrigiditi da cliché e stereotipi che riguardano anche e soprattutto la rappresentazione dei corpi.
Il teatro razzista mette in scena incessantemente queste maschere, talvolta arcaiche, talaltra modernissime: l’Immigrato rapinatore o stupratore, il Clandestino invasore e/o delinquente, la Zingara rapitrice d’infanti, l’Albanese, lo Slavo, il Marocchino omicidi o spacciatori, l’Extracomunitario pirata della strada, la Trans brasiliana divoratrice e vittima, il Lavavetri aggressivo e legato al racket, la Musulmana[3] velata, perciò integralista e/o sottomessa, l’Africana sottoposta a mutilazioni sessuali e ad altri orrori arcaici, l’infida Badante dell’Est seduttrice o manipolatrice di anziani, il Cinese chiuso e sfuggente, misterioso e omertoso, trafficante di false griffe e di gatti…
Molte di queste immagini stereotipiche, proposte e riproposte dalla dialettica competitiva fra media, politica e senso comune, sono il precipitato di pregiudizi razzisti e sessisti: alle donne aliene, più che alle altre, sembra non sia data alternativa tra la figura patetica della docilità e della sottomissione e la figura inquietante dell’intraprendenza volta al raggiro, al meretricio o al crimine.
Un terzo procedimento retorico frequente è quello che potremmo definire dell’indistinzione-magmatizzazione: la cronaca e gli schermi televisivi, allorché si occupano degli altri e delle altre, spesso ci propongono immagini che rimandano a un corpo collettivo, per meglio dire a un indistinto magma corporeo, dal quale sono cancellati i confini individuali: imbarcazioni di fortuna gremite di feccia umana (secondo il lessico di chi oggi si vede costretto a moderare un po’ il linguaggio dagli scranni di governo), centri di detenzione che implodono per la presenza di masse incontenibili e «pericolose», moschee straripanti di un indistinto corpo genuflesso, società e città minacciate da folle d’invasori…
Neppure da morti/e, quando non possono più costituire una minaccia, i corpi altrui sono riconosciuti come individuali e singolari; anche dopo che sono stati uccisi dal proibizionismo continuano a essere detti dalle cronache clandestini/e, e tali restano perfino se sono bambini o bambine. Il fatto che perfino da cadaveri siano considerati indegni di un nome – se non di quello singolare di ognuno/a, almeno di un nome collettivo rispettoso – non costituisce altro che il sigillo della de-umanizzazione di cui migranti e asilanti sono abitualmente oggetto.
Un altro dispositivo, non solo retorico, è quello, in apparenza opposto, della distinzione-marchiatura. Alludo a tutte quelle procedure simboliche e amministrative di tipo biopolitico, che incidono o «estraggono» lo stigma sui/dai corpi altrui, nella forma della marchiatura vera e propria – per esempio, i numeri segnati sulle braccia dei «clandestini» che approdano a Lampedusa – o del trattamento distintivo: per esempio, il confinamento nei centri di detenzione per migranti.
Si pensi alla vicenda italiana dei rilievi dattiloscopici riservati a rom, asilanti, rifugiati/e e migranti. Grazie alla sostanziale convergenza – culturale prima che politica – di gran parte della politica mainstream, di ogni orientamento, nel corso degli anni questa misura, da essere eccezionale, si è banalizzata e generalizzata; a tal punto che con la legge Bossi-Fini è stata estesa a tutti i cittadini stranieri richiedenti il permesso di soggiorno o il suo rinnovo.
Ancora a proposito di dispositivi biopolitici: in Italia, negli anni più recenti, vengono lanciate periodicamente campagne di «censimento dei campi-nomadi», volte a realizzare schedature di massa dei rom e dei sinti, accompagnate dal «rilevamento» delle impronte digitali. Le persone da schedare, adulti/e e minori, di nazionalità le più diverse, compresa l’italiana, sono individuate sulla base di una discriminante detta «etnica» (in realtà, razzista).
Perciò associazioni e organismi nazionali e internazionali di difesa dei diritti umani non fanno che criticare e denunciare questa consuetudine come discriminatoria, contraria al diritto italiano e internazionale, offensiva della dignità umana: invece di proteggere le persone più discriminate, le si addita, implicitamente o esplicitamente, come pericolose o potenzialmente eversive.
Infine, è il confinamento nei lager di Stato a rappresentare nel modo più esemplare il procedimento della distinzione-marchiatura. La lunga teoria di morti violente e oscure fu inaugurata dalla morte di Amin Saber, nel Cpt di Agrigento. Accadde nell’estate del 1998, poco dopo l’approvazione della legge 40, detta Turco-Napolitano, che istituiva per la prima volta in Italia la detenzione extra-penale, riservata agli «extracomunitari», trovati in condizione di irregolarità sul territorio italiano. Quella legge inaugurava lo stato d’eccezione permanente, la sospensione, durevole, della legalità.
Essa istituiva, insomma, un nuovo regime d’internamento, una forma inedita di sequestro e coercizione abusivi dei corpi alieni, che l’ipocrisia di Stato non ha saputo neppure designare con un neologismo accettabile: in Italia si è passati dall’ossimoro eufemistico di Centri di permanenza temporanea e assistenza, che illustrava bene la filosofia del «razzismo democratico», all’esplicito Centri di identificazione ed espulsione, che altrettanto bene rappresenta il razzismo aperto e brutale della destra, fino a Centri di permanenza per i rimpatri, una designazione che pretendeva anch’essa d’essere eufemistica, inventata dalla Legge Minniti-Orlando del 2017.
In definitiva, l’architettura discorsiva dominante, allorché sottrae i corpi «alieni» all’invisibilità, lo fa per rappresentarli e trattarli come onnipresenti, proliferanti, minacciosi (Tevanian, 2008). Essa riproduce costantemente la figura del migrante e della migrante come minaccia sociale, come alterità irriducibile alla norma, pertanto da controllare, disciplinare, correggere, anche nel corpo, infine liberarsene.
I corpi alieni, così raffigurati, sono, fra l’altro, figure proiettive alle quali si affida la rappresentazione di angosce individuali e collettive, legate ai problemi irrisolti della nostra identità e del rapporto con il nostro passato. Fra questi, la recente e incerta identità democratica nazionale, oltre tutto niente affatto fondata saldamente su valori e principi civili, e oggi più che mai fragile e contestata dall’attuale governo Meloni: decisamente razzista nonchè influenzato dall’ideologia fascista storica, ma anche dall’etno-nazionalismo razzialista della Lega Nord, com’essa stessa, la Lega, lo definisce.
Come ha osservato una volta Ilvo Diamanti, commentando i risultati di un sondaggio, allorché la maggioranza esprime senso di orgoglio nazionale, questo «appare incardinato su elementi extra-civili e pre-politici»: la bellezza del paesaggio, il patrimonio artistico e culturale, la moda, la cucina… L’immagine restituita dal sondaggio è quella di italiani rassegnati al proprio – patologico e storico – deficit di senso civico, rimpiazzato e compensato da un senso ‘cinico’ dilatato e dilagante».
Ancora a proposito del nesso fra il razzismo e il «cattivo» passato, questo riguarda non solo l’incapacità, tipicamente italiana, di fare i conti con la storia specifica del proprio razzismo, anche coloniale; ma altresì la persistenza di un rapporto assai problematico col passato di emigranti, spesso allontanato come una vergogna da dimenticare.
Insomma, alla nostra società manca una delle condizioni per riconoscere e ammettere come normale, permanente, strutturale la realtà dell’immigrazione e della pluralità culturale: un lessico emozionale e politico che permetta di elaborare il passato e di rispondere ai cambiamenti del presente e alle prospettive del futuro.
Giuseppe Giannini dice
E’ sempre bello leggere ciò che scrive (da tempo) Annamaria Rivera. Le sue parole sono in grado di allargare la visione del reale, oltre gli schemi e la rappresentazione del potere.Una denuncia ma anche un appello, dentro e fuori le istituzioni, per aprirsi all’altro,al rispetto della dignità umana e all’accoglimento.
Adel Jabbar dice
I ragionamenti di Annamaria sono sempre puntuali e incesivi. Questo contributo aiuta a fare chiarezza su approcci che da troppo tempo caratterizzano approcci diffusi sia nella trattazione della questione della immigrazione che nel trattamento riservato alle persone migranti.
Silvana Rivera dice
Ancora una volta Annamaria, senza retorica e sbavature, mette a fuoco quello che era e resta il problema fondamentale della nostra comunità di umani, cioè la non accettazione di un mondo composito e solidale. Quello che è accaduto in questi giorni nel mare Egeo, ancora una volta con le stesse dinamiche, è la riprova di quello che potrei definire “disumana cecità”. Le centinaia di persone finite in fondo a quel mare non suscitano più una dovuta indignazione, ma una sorta di scaricabarile su chi “non controllerebbe” al meglio i cosiddetti confini. E la signora Meloni continua a fare inutili forzature nei confronti dei Paesi del nord Africa, pensando di arginare una naturale e tragica migrazione. Povero mondo degli ultimi, considerati, appunto, “feccia” da eliminare.
Simona Ricci dice
L’invisibilizzazione dei migranti al lavoro, nei lavori più duri, è lo specchio della nostra inciviltà. “Possono arrivare in Italia, purché lavorino”. Se arrivano qui per cercarlo, un lavoro, ecco che non va più bene perché in questo caso “lo rubano”.
Cristiana Scoppa dice
La tragedia del Peloponneso conferma anche il drammatico impatto delle discriminazioni multiple: nella stiva del peschereccio stracarico, dove mancano aria e luce, sono costrette le donne e i/le bambini/e. Così il privilegio maschile di matrice patriarcale le condanna insieme ai più piccoli, tanto è vero che a salvarsi sono stati tutti maschi. Discriminate perché migranti e richiedenti asilo, le donne lo sono anche in quanto donne, per via del sessismo su cui è costruita l’ingiusta “normalità” delle relazioni sociali.
Mariano Rampini dice
Un’analisi sociale del valore “corporale” dell’essere umano. Del come ogni gruppo sociale esprima, attraverso l’accettazione di un modello, i propri paradigmi. Fissi e immutabili. A mio modestissimo avviso il pensiero espresso nell’articolo va al di là della questione migranti vista sotto l’aspetto dell’accettazione “politica”(le virgolette sono d’obbligo per non parlare di ideologia). Si prefigura un intero mondo nel quale la fisicità dell’essere vivente diventa segno di appartenenza e, al contempo, di esclusione: se possiedi quella determinata caratteristica (si badi bene, non solo del colore del corpo ma, magari anche dei capelli, degli occhi, dei segni distintivi) sei accettabile da una comunità. Il non possederli – per i motivi più svariati non ultimo, magari, un carattere genetico recessivo – mette al di fuori della comunità, finisce con l’ostracizzare lo “straniero” che magari straniero non lo è affatto. Si pensi all’idea di ariano tanto cara ai nazisti: un’immagine che corrispondeva senza dubbio a quella di tanti giovani ma certamente avrebbe dovuto escludere i loro capi… ecco così che entra in gioco un elemento incontrollabile. Il timore dell’estraneo identificabilisissimo se di colore diverso da quello accettato, con usi e costumi altrettanto diversi. Si identificano i nemici del popolo dal fatto che portino o meno gli occhiali (così Pol Pot giustificava i massacri degli “intellettuali”). Insomma i “segni” diventano preminenti sul pensiero e lo sopraffanno perché il pensiero costa fatica, richiede apprendimento costante, impegno personale. Affidarsi a un segno, al contrario, è facile. Così chi è nero, giallo, porta o non porta i baffi o la barba, usa o non usa determinati abiti, diventa “cosa” diversa dal sé che rispetta i canoni. Ma sono canoni falsi e ingannevoli perché distanti dal pensiero e dalla riflessione. Sono solo “segni” e, come tali, diventano stigmate da cui è impossibile liberarsi. E delle quali possiamo tranquillamente fare a meno: si rovescia un barcone con centinaia di persone a bordo? Basta voltare la testa e non guardare. Quei corpi sono diversi, distanti, sono cose non esseri umani che, come tutti, aspiravano a una vita migliore…
Rete Tlaxcala di traduttori dice
Versione francese
Les corps alien des personnes migrantes
https://tlaxcala-int.blogspot.com/2023/06/annamaria-rivera-les-corps-alien-des.html
paola elisabetta simeoni dice
Ringrazio Annamaria Rivera di aver parlato di “corpi”… questi grandi assenti del pensiero occidentale nonché dell’analisi antropologica nella loro stessa essenza fisica e neurale (Antonio Damasio). I corpi sono cerniere del rapporto con l’ambiente esterno, sono i nodi delle relazioni alla società e alla Natura. L’averli messi da parte, metterli da parte, disprezzarli non a caso è la ragione ultima della “grande cecità” (Amitav Ghosh) che ha permesso e permette le peggiori dimostrazioni dei processi di potere e di sopraffazione degli uni sugli altri. Se la “grande”Civiltà occidentale ha espresso la democrazia ha anche espresso ai maggiori gradi l’annientamento dell’essere umano. Questo annientamento passa per la cancellazione dei corpi ridotti a relitti… mentre questi corpi dovrebbero essere i luoghi dove nasce si perpetua la Vita. Puntare alla distruzione dei corpi (stigmatizzazione, mancanza di rispetto, furto della dignità, distruzione dei corpi fisici attraverso la guerra, ecc.) è il segno della volontà di morte (quella stessa espressa dal nazismo che ci ha derubati della svastica simbolo del Processo Vitale cosmico) di quei poteri che, consciamente o inconsciamente, la praticano. Che’ quel simbolo rappresenta il ritmo vorticoso della Vita come ci è descritto dalle filosofie orientali e oggi anche dalla fisica quantistica e dalle ultime scoperte neurologiche. È simbolo fondante dei processi di individuazione, intesi in senso junghiano come processi di costruzione di umanità e dei flussi delle relazioni sociali, e quindi di ogni attività e realizzazione culturale.
Silvia Curitti dice
Grazie Annamaria per la tua puntuale e dettagliata analisi.
Lorena Currarini dice
Premetto che finanzio Emergency e Medici senza frontiere. Premetto anche che sono favorevole all’ accoglienza di tutti. E che sono pure comunista. Lo premetto perché ciò che sto per dire è sgradevole.
Questi corpi razzializzati di cui parla l’articolo qualche volta sono effettivamente portatori di pratiche arcaiche e mostruose. Non è un nostro pregiudizio: è la loro realtà.
Molte donne africane sono davvero mutilate; molte islamiche sono davvero sottomesse. Non è il nostro sguardo: è la loro condizione concreta. La cosa molto, ma molto complicata, almeno per me che sono una vecchia comunista che sopporta sempre meno l’adorazione verso Foucault, è che queste donne la sottomissione e anche la mutilazione la VOGLIONO. E che a me non piace – posso dirlo? posso esprimere un giudizio non razzista ma POLITICO? – che queste donne siano sottomesse per propria scelta. Mi sembra sbagliato. Esatto: sto giudicando. Mi permetto di esprimere un giudizio politico. Quei corpi martoriati e ingabbiati mi sembrano politicamente ostile a tutti ciò in cui credo. Uguaglianza: a sinistra, l’uguaglianza dovrebbe essere il faro, no? Queste donne sono mie nemiche politiche (non razziali: politiche, chiaro?) perché vogliono un mondo di gerarchia e sottomissione. Non vogliono l’uguaglianza, l’autodeterminazione, la libertà di essere persone e non oggetto. Sono portatrici di valori profondamente reazionari. E in questo (non nell’essere africane o islamiche, ma nell’essere fasciste) sono mie nemiche. A sinistra magari sarebbe bello parlarne sul serio, invece di difendere indiscriminatamente tutto ciò che viene dalle persone che sono state e sono ancora oppresse da noi. Stiamo attent* a non lasciare questo discorso alla destra.
Gennaro Avallone dice
nell’articolo si parla dei corpi e delle loro sofferenze, non delle loro pratiche fasciste.