di Daniele Ferro*
Sanaa è seduta al banco, come i suoi compagni: quando le passo di fianco mi cattura la mano e la tiene avvolta. È il primo giorno di rientro da alcuni giorni di vacanze e questo contatto mi fa provare un’emozione – un fuggevole calore meravigliato nell’animo – che credo di non avere mai prima conosciuto: dopo le prime tre settimane di lavoro a dicembre, chiamato in corso d’opera dalla scuola come maestro di sostegno, al rientro avevo quasi dimenticato che Sanaa cerca il contatto di noi insegnanti. Me l’aveva detto una collega al mio battesimo scolastico, quando la bambina mi accarezzava la nuca nei primi minuti del mio arrivo in classe: «Facci l’abitudine, perché lei è così!».
Io non sono il maestro di sostegno di Sanaa, ed è piuttosto lei, in quei momenti di mani avvolte, ad essermi maestra: lo stupore nell’animo muta dopo pochi istanti, diviene consapevolezza del mio ruolo nei confronti di tutti i bambini della classe, dell’intera scuola.
Quel contatto fortifica il senso di responsabilità che un educatore non dovrebbe mai sospendere durante il lavoro: qualsiasi parola, tono, sguardo, gesto, trasmettono – lo si voglia o no – significati che gli educandi ben colgono, soprattutto i bambini con il radar della loro sensibilità.
https://comune-info.net/2018/12/educare-considerare-proprio-tutto-cio-che-e-umano/
Sta tutta qui la difficoltà – e il fascino – del lavoro educativo, che riguardi genitore o insegnante; provarci, sempre, a profondere positività: riuscirci sempre, mai.
Rimango lì in piedi di fianco a Sanaa, nessun compagno guarda stranito noi o le mani: i bambini sanno. Rimango lì in piedi e ancora l’animo muta, ora prova un orgoglio d’apparente banalità: non sto facendo nulla, lì di fianco a Sanaa, ma sto facendo molto.
Che cosa ci insegnano i bambini quando cercano la mano adulta, o quando accolgono festanti l’adulto appena entrato in classe, a casa? Desiderano solo, credo, la nostra presenza. Stringere una mano può colmare un senso di insicurezza, un bisogno di affetto da ricevere e trasmettere; al fondo, tuttavia, c’è la ricerca di una conferma. Come quando noi adulti, dinanzi a una persona cara che soffre, non abbiamo parole valide per un conforto; salvifica è innanzitutto la nostra presenza, il nostro dire anche soltanto al telefono: «Se hai bisogno, ci sono».
I bambini, con la loro mano avvolta, sussurrano: «Stammi vicino, ora mi basta questo».
Esserci è spesso difficile nella nostra società ossessionata dalla velocità, distratta. I bambini ci insegnano il valore dell’esserci, antefatto della solidarietà concreta.
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