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Rio+20. Green Illusion

Paolo Cacciari
04 Giugno 2012

Siamo oramai alla vigilia di Rio+20, il grande summit dell’Onu sullo stato del pianeta, che si terrà in Brasile dal 20 al 22 giugno, e sulle pagine dei giornali di tutto il mondo è già apoteosi della green economy. Come lo fu vent’anni fa lo «sviluppo sostenibile». Cambiano gli slogan, la retorica rimane identica. Formule magiche per tentare di conciliare irriducibili contraddizioni: l’aumento delle rese economiche e la salvaguardia degli ecosistemi. Capitale e natura non vanno d’accordo. Il primo s’è mangiato la seconda. Vent’anni di fallimenti, di promesse mancate, di convenzioni e di protocolli disattesi non bastano a far ammettere ai capi di governo e al mondo della politica ciò che è sempre più evidente: la crescita delle attività economiche mirate ad aumentare i profitti, accumulare la ricchezza finanziaria, investire in sempre nuove attività imprenditoriali non può che far peggiorare gli impatti del sistema umano sui cicli bio-geo-chimici della Terra. Il «metabolismo» di questo sistema economico ci dice che il consumo di natura – sia per quanto riguarda i prelievi, sia sul versante degli sversamenti, delle emissioni e dei rifiuti – procede a ritmi insostenibili nonostante i «benefici» venuti dalla prolungata crisi.

La green economy revolution è una chimera: sostiene che sarebbe possibile un disaccoppiamento (decoupling) tra crescita illimitata dei profitti, dei salari, dei consumi e del Pil da una parte, e diminuzione dei materiali primari impiegati nei processi produttivi e di consumo (throughput). Il miracolo sarebbe opera, per l’appunto, delle tecnologie «verdi» e «bleu», ad impatto zero, capaci di imitare i cicli naturali, che notoriamente funzionano «a cascata» e a riciclo continuo. La «dematerializzazione» delle produzioni e la «decarbonizzazione» dell’energia sarebbe a portata delle innovazioni tecnologiche in essere: nanotecnologie, miniaturizzazione degli strumenti, bioingegneria, energie rinnovabili, ecc. applicate intelligentemente (smart cities) grazie all’informatizzazione dei processi. «Bio+Web»; qui starebbe la svolta salvifica, la via di uscita dalla crisi, i nuovi posti di lavoro, il ritorno ad un rapporto armonioso con la natura, insomma la grande riconversione ecologica dell’economia, il New Deal verde. I nostri figli troveranno un lavoro soft, bello e buono, noi mangeremo più sano, le città saranno un fiorire di orti urbani. Grazie alla green economy anche Obama (forse) riuscirà ad essere rieletto e speriamo che anche Ermete Realacci (ultimo il suo: Green Italy, Chiarelettere, 2012) possa avere più successo nel suo partito.

Cos’è che non va, allora?

«The end of growth» è il titolo di un libro di Richard Heinberg. Ma ci sono anche altri pensatori che la vedono allo stesso modo. Per esempio, Chris Marthenson, un analista finanziario che ha venduto tutto e che sul suo sito consiglia di comprare terra e metalli preziosi. La loro analisi si basa sulla convinzione che il Pianeta, allo stato delle tecnologie disponibili oggi e nei prossimi vent’anni, non è in grado di fornire sufficienti materie prime per fronteggiare l’impatto dell’aumento demografico e della moltiplicazione dei consumi. «Il problema non è solo il picco del petrolio, ma il picco di tutto il resto» per usare un’espressione dell’analista finanziario Jeremy Grantham. La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sulle «terre rare», necessarie proprio per produrre energie alternative e le tecnologie necessarie alla green economy, sembra confermare queste diagnosi. Non basterà nemmeno aumentare di un «fattore 10» l’efficienza nell’uso delle materie prime per far fonte ad una crisi da «rarefazione» delle risorse naturali in un pianeta che ha esaurito il 95% delle riserve conosciute di mercurio; l’80% del piombo, dell’argento, dell’oro; il 70% dell’arsenico, del cadmio, dello zinco; il 60% dello stagno, del selenio, del litio; il 50% del rame, del manganese del bellerio.

L’aiuto che ci può venire dalla ricerca scientifica è certamente indispensabile per tentare di sopravvivere il più a lungo possibile con ciò che abbiamo a disposizione, ma ciò sarà possibile solo se scienza e tecnologia saranno liberate dai meccanismi e dalle logiche del mercato, cioè dai loro committenti. Nemmeno un guru della sostenibilità come Jeremy Rifkin sembra rendersi conto del paradosso cui è immersa la green economy. Egli ha infatti sostenuto la necessità di un forte investimento finanziario a favore di idrogeno, rinnovabili, case intelligenti, smart grid, auto elettriche, poiché: «senza investimenti non ci può essere crescita» (la Repubblica del 1 giugno). Ecco che torna il «dilemma» (come lo chiama Tim Jeckson) della green economy: strumento, occasione, opportunità… per rilanciare e allargare il mercato ingrassando di denaro chi detiene i brevetti (da far pagare ai paesi «in via di sviluppo»; versione aggiornata del colonialismo – questa volta, del sapere) ovvero via di uscita dell’umanità per liberarsi dalle logiche ossessive e suicide, accrescitive, lineari, esponenziali… quindi insostenibili del mercato?

Per dirla altrimenti; non basta un’altra tecnologia, servono nuove forme di collaborazione internazionale, «un nuovo paradigma economico», come afferma il segretario dell’Onu Ban Ki-moon, per consentire una vita dignitosa per sette (oggi) otto (nel 2030) o nove miliardi di esseri umani (nel 2050) e anche nuove «politiche demografiche» che consentano alle donne il controllo della propria fertilità.

Il nuovo rapporto del centro Nuovo Modello di Sviluppo di Pisa sulle “Top 200” multinazionali ci dice che due terzi del commercio internazionale è controllato da loro. Non c’è nessuna tecnologia leggera che ci potrà liberare dal loro potere se non viene accompagnata da politiche forti.

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