Come in tante altre occasioni, anche nella storia esemplare che analizza da ogni punto di vista Nuria Alabao in questo prezioso articolo, la potenza dei media costruisce audience e spettacolo su un’aggressione, ignobile seppur lieve, che aumenta la percezione di insicurezza in un quartiere di Madrid in cui convivono grandi interessi speculativi, degrado ed emarginazione. Un quartiere da “rigenerare” gentrificandolo e magari associandolo al terrore sessuale. Una strategia molto consolidata nelle retoriche della riforma urbana. Nell’episodio di pesante molestia e di enorme impatto mediatico che racconta Nuria, ci sono la giornalista buona, non può che essere la vittima – è il suo capo a intervenire con autorità e irrefrenabile indignazione decidendo per lei – c’è l’aggressore imbecille (e per giunta rumeno) e c’è la polizia, rappresentata come il solo soggetto che può salvare le donne dalla violenza. La violenza sessista da problema sociale ed espressione diretta della cultura patriarcale si trasforma così in spettacolo funzionale alla costruzione di panico morale (sempre utile a criminalizzare certi spazi e categorie di persone) che può avere solo soluzioni penali e poliziesche. Ne fa le spese, naturalmente, l’autonomia delle donne, la loro capacità di decidere come, cosa e quando denunciare, magari evitando l’ennesima condanna al ruolo di vittima nell’uragano mediatico che altri hanno sollevato. In questa vicenda c’è una domanda che, in modo particolare in queste prime settimane autunnali, non può che rimbalzare in modo contundente sui teatri politici e mediatici italiani: chi sono i responsabili dell’insicurezza e degli stupri nei “nostri quartieri diventati letamai multiculturali”?
Il crimine in diretta
ESTERNO, VIA DUQUE DE ALBA (MADRID) – GIORNO
Una giovane giornalista si trova in collegamento in diretta per il programma “En boca de todos” (“Sulla bocca di tutti”) della rete Cuatro. Un uomo con gli occhiali da sole, con atteggiamento divertito e impudente le si avvicina da dietro, le tocca il culo e poi le chiede di quale emittente è. La giornalista si allontana un po’ e continua a parlare malgrado l’interruzione, mentre l’operatore della ripresa lascia fuori campo l’intruso.
Passa qualche secondo e il conduttore del programma interrompe l’inviata per chiederle se le hanno appena toccato il culo. “Sì”, risponde la giornalista. “Non riesco proprio a capirlo. Puoi mettermi davanti quell’uomo? Quel tipo è tonto. Passami quello stupido, per favore”. La giornalista, molto imbarazzata, si avvicina al tipo e gli chiede il motivo dell’aggressione. Il conduttore non si trattiene: “Questo tipo è un imbecille!”.
Nel collegamento successivo, interpellata, la giornalista spiega che quel giovane ha continuato a molestare altre passanti per la strada. “È un fatto molto normale qui”, spiega una donna accanto alla giornalista.
“Potete vederlo lì”, la giornalista si sposta verso il marciapiede dove si trova lui perché appaia nella telecamera. Mentre il giovane si dirige verso di lei, il conduttore l’avverte: “Voltati, sta arrivando”. «Non mi va di dargli protagonismo», risponde la giornalista. “Dai, tagliamo qui”, risponde il conduttore.
Reazioni: i salvatori
Poco dopo in onda, il conduttore comunica di aver contattato le forze dell’ordine: “Li abbiamo chiamati perché devono agire. Aspettiamo le immagini dell’arresto di questa persona impresentabile”.
Dieci minuti dopo, una pattuglia del commissariato di polizia del distretto di Madrid Centrale arresta il giovane, lo ammanetta e trasmette in un tweet il video dell’arresto. Il giovane trascorrerà l’intera notte in detenzione fino al rilascio da parte della giudice il giorno successivo.
Le reazioni di repulsione non tardano ad arrivare. Diego Losada, un altro giornalista dell’emittente, pubblica in rete: “Quel personaggio è già detenuto. Lasciamo che su di lui ricada tutto il peso della legge e che tutti sappiano che atti del genere non possono rimanere impuniti (…)”. Si susseguono altre manifestazioni di solidarietà alla giornalista, dalla ministra de Igualdad all’Academia de la Televisión, poi la stessa Cuatro e l’Associazione della Stampa di Madrid, tutte fanno comunicati. Nell’ultimo si parla della difesa del diritto alla “libertà di stampa”. Molti utenti di X (ex twitter) accolgono con favore l’arresto e altri mostrano disappunto quando apprendono che il giovane è stato rilasciato in attesa del processo. “Questo è il problema, non è rimasto lì nemmeno per 24 ore…”, ha detto Verónica Dulanto, conduttrice di un programma sulla stessa rete.
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“Un rumeno aggredisce sessualmente una giornalista dal vivo“.
“Un imbecille rumeno arrestato per aver toccato in diretta il culo di un giornalista di Cuatro”.
“L’uomo arrestato per aver toccato il culo di una giornalista viene rilasciato senza misure cautelari”.
Questi alcuni dei titoli di stampa che hanno riportato gli avvenimenti nei giorni successivi.
La legislazione
Secondo la nuova legge “Solo sì vuol dire sì“, un atto di questa portata è considerato un reato di violenza sessuale – in precedenza era un abuso. La pena possibile è da uno a quattro anni di reclusione – da due a otto se c’è una situazione di “prevalenza” – cioè se c’è una relazione parentale, se lo fa il tuo capo o se la vittima è un ex partner. L’opzione più logica per un caso come questo sarebbe quella di applicare la pena nella misura più bassa: una multa – oppure la reclusione da uno a due anni – ma questo viene lasciato alla discrezione del giudice. Ad esempio, recentemente, una donna latinoamericana di 23 anni è stata condannata per violenza sessuale per aver toccato il culo di un giovane in una discoteca. È stato raggiunto un accordo, per il quale la pena è di sei mesi di reclusione, l’interdizione da ogni lavoro con minori per 18 mesi – una novità della legge ‘Solo sì vuol dire sì’ -, due anni di libertà vigilata e il pagamento di 300 euro alla vittima. Quella donna avrà precedenti penali, quindi potrebbe avere problemi a rinnovare il permesso di soggiorno se non lo ha consolidato. Prima del 2015, questi atti non erano considerati un reato e venivano risolti attraverso un procedimento rapido e le pene comminate erano multe.
La stampa
Alcune notizie recenti del programma – “Sulla bocca di tutti” – avevano questi titoli: “Arrestato per aver eiaculato sulle auto dei vicini nel garage della comunità”; “Nacho Abad, in risposta alla denuncia di una bambina di sei anni per abusi sessuali a scuola: ‘Non si possono tenere bambini di sei anni senza sorveglianza in un patio’”, oppure “Una donna di 71 anni assume un sicario per vendicarsi della compagna del suo ex: ‘Non mi interessa se la uccidi’”.
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Di cosa stava parlando la giornalista di Cuatro quando è avvenuta l’aggressione?
La notizia riguardava un tentativo di rapina, avvenuto la domenica sera precedente – dunque un giorno e mezzo prima – in un negozio di alimentari, che aveva portato all’arresto sia dell’uomo che aveva tentato di rapinare il negozio, sia dei dipendenti del negozio che lo avevano picchiato. Le dirette televisive vengono utilizzate in genere per parlare di qualcosa che sta accadendo in quel momento, ma a volte funzionano per creare un senso di emergenza e rendere la notizia più emozionante.
La scena del crimine
La strada dove è avvenuto il fatto è Duque de Alba, che si trova nei pressi di Plaza Tirso de Molina, a Madrid, molto vicino a Lavapiés, la piazza dove una donna è stata uccisa durante una rapina qualche mese fa. “Furia e tensione tra gli abitanti del quartiere a Tirso de Molina: ‘Quello che stiamo vivendo è orribile, ho imparato il karate per difendermi dalle rapine’”. È uno dei titoli degli ultimi tempi che lo descrivono come un luogo “senza legge”, in articoli che includono dichiarazioni degli abitanti del quartiere in cui si dice che “qui un commerciante rischia la vita ogni giorno”.
Insieme allo stesso quartiere di Lavapiés, questa zona è soggetta a molti interessi contrapposti, o meglio, più semplicemente, alle tensioni della vita urbana quando è veramente pubblica. Da una parte la gente povera che vive per strada, quelli che dormono e vivono in piazza, i migranti – molti senza documenti –, ma anche lo spaccio, il rumore esagerato, la sporcizia. Dall’altra i forti interessi immobiliari che si condensano in una piazza di confine, una zona centrale adiacente a un quartiere povero dove si vendono appartamenti per 1,6 milioni di euro e dove è appena stato allestito una palazzina per affitti turistici. Il prezzo medio delle abitazioni è di 4.500 euro al metro quadrato – 500 euro in più rispetto al prezzo medio della città nel suo insieme.
Alcuni abitanti del quartiere chiedono più polizia. È la prima soluzione che viene loro in mente, ma è un fallimento, perché ci sono venti anni di pressione poliziesca costante alle spalle che non hanno risolto nulla. Le telecamere, l’aumento del numero degli agenti e le retate – che periodicamente e in forma brutale vengono affettuate sulla popolazione migrante, soprattutto sui venditori ambulanti – sono serviti a poco. In questi luoghi, i nuovi reati, come le molestie di strada – creati dalla legge “Solo sì vuol dire sì” – consentono di aumentare la capacità di repressione della polizia negli spazi pubblici e i loro effetti ricadono su un profilo molto specifico di persone che soffre già di questa repressione.
Sebbene l’evento dell’aggressione alla giornalista sia evidentemente molto minore, malgrado la grande risonanza mediatica che ha avuto, associare la povertà e il decadimento di un quartiere che vuole essere “rigenerato” – cioè gentrificato -, collegandolo al panico sessuale, è una strategia consolidata nelle retoriche della riforma urbana. Ci sono esempi che vanno dal permettere che gli stupri avvengano come strategia di sfratto, come ha raccontato l’artista Jana Leo a proposito della sua esperienza in una zona povera di New York, fino alla creazione di un caso di pedofilia nel quartiere El Raval di Barcellona, alla fine del 1990, con l’obiettivo di delegittimare la lotta di quartiere, come ha spiegato Joaquim Jordá in un documentario.
Cosa ci fa qui Vox?
Il quadro securitario contro i poveri è un quadro reazionario ben rappresentato dalla nostra estrema destra locale – anche se non in modo esclusivo, perché è utilizzato anche da altre forze politiche meno “estremiste” –. Vox cerca di fare dell’insicurezza il problema principale dei nostri quartieri. Le occupazioni, le rapine, gli attacchi contro i gay o gli stupri sarebbero parte di uno stesso magma che può essere fermato chiudendo le frontiere, aumentando le pene e rafforzando le prerogative della polizia e le sue risorse. Questo partito addita, ad esempio, i minori non accompagnati come responsabili dell’insicurezza dei “nostri quartieri diventati letamai multiculturali”, ma anche degli stupri – per i quali chiede l’ergastolo. Ovviamente, Vox trova un aiuto inestimabile nei media che collaborano attivamente quando si tratta di creare il panico su determinati luoghi e sui loro abitanti: sui migranti, sugli occupanti di case… e sull’insicurezza delle donne. L’agenda sensazionalista dei media e l’agenda reazionaria di Vox – ma anche di altri partiti – si fondono nella risposta securitaria e nella proposta della polizia come soluzione a qualsiasi problema. Nella proposta delle forze dell’ordine come salvatrici delle donne.
La polizia che ci salva
In quella stessa settimana si sono verificati due eventi eccezionali che mettono in luce dinamiche e forme di azione in cui sono evidenti la brutalità della polizia e l’aperta discriminazione razzista che normalmente rimangono nascoste. Da un lato, la registrazione della tortura di sei agenti del Mossos d’Esquadra (il corpo di polizia regionale della comunità autonoma spagnola della Catalogna, ndt) nei confronti di un uomo sub-sahariano al quale hanno detto: “Tu, fottuto negro, figlio di una gran puttana, sei una scimmia, la prossima volta che vedi la polizia cerca di andare molto lontano. Più lontano dell’Africa”, il tutto mentre lo picchiavano e dopo aver sparato in aria durante un inseguimento con lo scopo di terrorizzarlo. Dall’altro un’aggressione razzista, avvenuta a Saragozza e perpetrata da alcuni poliziotti che hanno insultato una ragazza nera e poi hanno immobilizzato con violenza, tra cinque agenti, e preso a calci suo zio, con evidente uso eccessivo della forza.
La giornalista June Fernández si è chiesta su Instagram: “Se un uomo mi tocca il culo per strada, devo chiamare la polizia? Quegli agenti di Saragozza mi proteggeranno dalle aggressioni sessiste normalizzate? (…) Probabilmente mi proteggeranno, sì, forse (non credo) finché non vincerò il processo. Ora, quali donne proteggerà la polizia che molesta le sex workers, i venditori ambulanti e tutte le persone razzializzate? (…) E quali uomini saranno più facilmente identificati, arrestati e condannati per aggressioni sessiste quotidiane? Che impatto avrà questo, ad esempio, sui minori non accompagnati di origine nordafricana?” Fernández ha appena pubblicato su Píkara un testo su come le forze di polizia, in nome della lotta contro l’ETA, hanno utilizzato il terrore sessuale e gli stereotipi sessisti per sottomettere le donne detenute.
Gli atti di discriminazione all’interno dei corpi della sicurezza, o l’uso abituale ed eccessivo della forza, non sono compiuti da “pecore nere” che possono essere identificate ed espulse, riscattando così le “forze dell’ordine”, ma sono istituzionalizzati, sono parte costitutiva dell’azione della polizia, come spiega Paul Rocher in Cosa fa la polizia e come vivere senza di essa (Katakrak, 2023). Una polizia che può sembrare che ci salvi, ma la cui funzione principale è costringerci ad accettare – con la forza – l’iniqua distribuzione della ricchezza. Ecco perché può sembrare utile per “salvare” alcune donne – purché facciano parte di un certo strato sociale della classe media –, mentre aumenta la pressione su quelli che stanno in basso e le loro ribellioni man mano che aumenta la disuguaglianza. Pertanto, difendere un sistema di garanzie procedurali – per tutti senza distinzioni – e un minor peso del sistema penale e repressivo vuol dire anche difendere il nostro diritto di lottare contro questo ordine di disuguaglianza – al tempo della Ley Mordaza (che il governo di sinistra spagnolo non ha voluto cancellare, ndt)
L’aggressione come spettacolo, la punizione come soluzione
Nella storia con cui si apre questo articolo la televisione agisce, come in tante altre occasioni, costruendo uno spettacolo su un’aggressione – anche se lieve – che aumenta la percezione di insicurezza. C’è una chiara reazione eccessiva che colloca i giornalisti al servizio del bene: “La lotta contro il maschilismo”. Qui, un vero problema sociale – la violenza sessuale – si trasforma in uno spettacolo funzionale alla costruzione di panico morale e di un’agenda che può finire per servire l’autoritarismo e la criminalizzazione di alcune categorie di persone. Il problema è reale, ma ci sono altri modi per affrontarlo, più “trasformativi” e meno dannosi per tutti, donne comprese, perché il terrore sessuale è funzionale alla limitazione della nostra libertà. Il contesto, inoltre, è quello di un chiaro quadro di allarme sociale, e quel tipo di allarme può dar luogo solo a un tipo di soluzione: quella poliziesca e penale. Si chiede che gli autori delle aggressioni vengano bruciati sul rogo, e vengono addirittura messi in discussione i diritti dei detenuti, mentre gli avvocati che li difendono vengono insultati.
Numerosi giuristi hanno evidenziato in questi giorni sui social network la sproporzione dell’arresto – la notte trascorsa in cella, che ad alcuni sembra poco –, delle manette e della registrazione video o perfino l’imposizione di una cauzione. Il reato resta lieve e avrebbe potuto essere risolto con un rinvio a giudizio, perché esiste la figura dell’indagato non detenuto. Ma la costruzione di questi panico genera mostri sui quali deve invece cadere “tutto il peso della legge”, il che favorisce lo sviluppo e il perpetuarsi di pregiudizi e stereotipi sui criminali – uomini, giovani, migranti o appartenenti a qualche minoranza etnica – e sulle vittime – docili, che denunciano, che si comportano bene, cosa che viene poi usata contro le donne nei processi stessi se non corrispondono all’immagine di una buona vittima.
Naturalmente, questa creazione di agenda è selettiva, così come lo è la rappresentazione del “delinquente”: quando vedremo immagini simili di imprenditori detenuti e ammanettati per sfruttamento lavorativo? Così come anche la solidarietà è selettiva: quali vittime meritano sostegno o visibilità? Fuori restano sempre i casi che colpiscono chi “non è come noi”, le lavoratrici stagionali di Huelva che hanno denunciato abusi sessuali da parte dei loro datori di lavoro, le migranti prive di documenti i cui casi compaiono sulla stampa solo quando ottengono condanne – come quelle che sono state aggredite dalle forze dell’ordine – o quelle che denunciano abusi nei centri di detenzione esteri (CIE).
Molte autrici femministe fanno da tempo ricerca su come la lotta alla violenza contro le donne possa diventare un potente agente al servizio della legittimazione della violenza statale e della “securitizzazione” globale. Inoltre, una parte del femminismo non si sente rappresentata nemmeno nelle soluzioni penali, perché come ci insegna il femminismo nero, l’opzione repressiva non risolve il problema di fondo, non metterà fine alla violenza sessuale o alle disuguaglianze che strutturano l’ordine di genere, ma produce anche più violenza – poliziesca, carceraria – che ha un impatto anche sulle donne più povere o più discriminate. Da questi femminismi sono arrivati anche importanti contributi su altre forme di giustizia non così incentrate sulla punizione, come quella trasformativa o riparativa .
Sulla denuncia e sulla capacità di agire delle vittime
La giornalista di Cuatro voleva denunciare o dare copertura mediatica alla sua aggressione? Noi non lo sappiamo. Tuttavia, il quadro che si va imponendo – da parte di giornalisti, commentatori sui social, politici professionisti e messia di ogni tipo – è che altri sono quelli che vengono a salvarti, quelli che denunciano per te o ti spingono a farlo. Il pericolo, afferma in un rapporto l’avvocato penalista Miren Ortubay, è che si sia creato un contesto in cui si è vittime buone o cattive a seconda che si denunci o meno. “Denunciare è difficile, il processo giudiziario è difficile. Dobbiamo chiederci se Jenni Hermoso e le altre vittime si sentano obbligate a denunciare perché così sentono che la loro verità sia più vera. La sfera penale non può essere la via di riparazione definitiva”, afferma Ortubay.
Quando il femminismo ha lottato per rendere visibili le violenze sessuali – affinché la società smettesse di voltarsi dall’altra parte, affinché si smettesse di giustificarle, affinché potessimo ottenere sostegno quando ne abbiamo bisogno –, non ha chiesto “salvatori”, non ha chiesto di rimuovere la nostra caapcità di agire o di decidere per noi. Né vogliamo che ci si dica come dobbiamo interpretare ciò che ci accade, o quanto una situazione del genere “deve farci male”. Dobbiamo sentirci danneggiate o traumatizzate da qualsiasi atto del genere? Sappiamo che questo tipo di aggressioni di strada sono state utilizzate per allontanare le donne dagli spazi pubblici, da un luogo che “non ci appartiene”, dove saremo sempre in pericolo, perché la subordinazione di genere si è costruita sull’esclusione di ciò che è pubblico: dalla produzione, dalla politica, a volte dalla strada stessa. Lo spazio pubblico è sempre stato un luogo in cui accadono cose, anche per le donne, tuttavia da molto tempo costruiamo resistenze e forme di autodifesa per far fronte ai problemi che vivere negli spazi pubblici ancora genera. La nostra capacità di lotta è parte del nostro potere. Non abbiamo bisogno che lo Stato si prenda cura di noi perché molte delle oppressioni di cui soffriamo provengono proprio dallo Stato; per esempio, quando ci sfrattano dalle nostre case. Le mie amiche miei amici si prendono cura di me, non la polizia.
Se oggi si pretende che sia il diritto penale a educare la società – la sua funzione non è quella di cambiare la società, ma di controllarla – che immagine si sta creando delle donne? Quando la legge ci definisce attraverso la “subordinazione sessuale”, anche se pretende di essere liberatoria, questo in realtà reinscrive la femminilità solo in termini di vulnerabilità sessuale, e incide sul fatto che le donne siano viste come esseri non protetti, senza capacità di azione e risposta, come spiega Wendy Brown. L’esempio migliore di questo è il divieto di mediazione per le vittime di reati sessuali contenuto nella Legge Solo sì è Sì perché, ancora una volta, le donne vi vengono rappresentate come incapaci di decidere da sole, con la scusa di “proteggerle”. (La mediazione è un processo attraverso il quale le parti raggiungono un accordo sulle sanzioni o le azioni di riparazione necessarie per evitare il processo.)
Una storia senza morale della favola (e qualche domanda)
È vero che il femminismo è riuscito a ottenere che ciò che era stato naturalizzato generi un rifiuto sociale quasi unanime e ciò implica un chiaro avanzamento. Per raggiungere questo obiettivo, il ruolo della conversazione pubblica è fondamentale, ma questo quadro – in cui sembra che l’unica soluzione pensabile sia quella penale – genera nuove sfide e domande per un femminismo che miri a trasformare la società in senso radicalmente egualitario.
Come possiamo informare o discutere sulle aggressioni sessuali senza aumentare il terrore sessuale che minaccia la nostra stessa autonomia? Come denunciare che si tratta di situazioni intollerabili senza riaffermare l’idea di pericolo nella sessualità e quella di irrecuperabilità nelle vittime? Si può avere una discussione pubblica senza quel panico morale che inevitabilmente conduce a soluzioni penali e poliziesche?
Possiamo dare più autonomia alle donne che subiscono queste aggressioni in modo che possano affrontarle senza metterle nell’occhio di un uragano mediatico che potrebbero non desiderare? E, per coloro che hanno bisogno di denunciare, come possiamo davvero migliorare il processo in modo che sia giusto e riparativo?
Quando metteremo la situazione materiale delle donne al centro degli sforzi femministi per combattere la violenza machista? Dobbiamo davvero associare in via prioritaria un certo accesso ai diritti solo a coloro che raggiungono la condizione di vittime?
Vogliamo legittimare la polizia o le carceri attraverso la lotta contro la violenza machista invece di lottare contro la violenza sociale che quelle stesse istituzioni producono? Quali soggetti – poveri, razzializzati – possono finire per subire le conseguenze di questo rafforzamento del sistema penale o poliziesco? Il sistema penale potrebbe mai essere la soluzione per le donne povere, quelle prive di documenti, per le lavoratrici del sesso o per le persone trans?
Quando parleremo di ciò che accade nelle carceri, delle torture, delle ingiustizie che producono, invece di guardare dall’altra parte? Da che parte vuole stare il femminismo: da quella del controllo poliziesco che fissa l’ordine della disuguaglianza che ci opprime o da quella che lo sfida?
Fonte e versione originale in spagnolo: Ctxt
traduzione per Comune-info: marco calabria
lenuccia dice
I salvatori fake che utilizzano la distrazione di massa per nascondere il peggio di loro stessi e dei propri lucrosi affari. Ecco un esempio nostrano che naturalmente il servizio pubblico non ha mai parlato perchè è della lega. https://latinatu.it/confiscato-il-patrimonio-di-iannotta-da-50-milioni-di-euro/
Di casi simili ce ne sono a centinaia solo in questa provincia, perchè fanno scuola agli aspiranti delinquenti che, non con le mancate vaccinazioni, ma con questi sistemi alla Santadechè rubano fondi ai servizi pubblici sociali.