di Elisabetta Cangelosi
A Bruxelles gli orti urbani esistono da molto tempo, diventano sempre più numerosi (una trentina soltanto nella regione di Bruxelles) e sono sostenuti, in diversi modi, anche a livello istituzionale: attraverso associazioni senza scopo di lucro che supportano la creazione dei giardini (haricots.org) oppure attraverso iniziative pubbliche e private destinate a sostenere il verde nei quartiere (bruxellesenvironnement.be, quartiersverts.be, promethea.be).
Durante una ricerca dedicati agli orti di Bruxelles ho avuto modo di visitare un giardino davvero speciale, Marjorelles. L’obiettivo dello studio era cercare pratiche dei beni comuni anche al di fuori dell’elaborazione teorico-politica sull’argomento e ho incrociato un’esperienza di riappropriazione di spazi urbani piuttosto particolare. Beni comuni, sostenibilità abitativa, diritto d’asilo, questioni di genere, altra mobilità, economia alternativa, autoproduzione, vita di quartiere… il tutto in neanche settanta metri quadrati di giardino e in un edificio costruito secondo i criteri dell’ edilizia passiva (cioè in grado di assicurare il benessere termico senza o con una minima fonte energetica di riscaldamento) che ospita quattrodici appartamenti e settantotto persone.
Diritto all’abitare
Un progetto, quello dell’associazione Espoir, cominciato nel 2005 come reazione alla crisi abitativa di Bruxelles, approdato, nel 2010, nella costruzione della casa passiva che oggi rappresenta non soltanto un esempio di integrazione culturale ma anche di coesione sociale, proprio attraverso quel fazzoletto di terra che è il giardino Marjorelles. Ciò che questa esperienza ha di speciale è la sua stessa essenza costituente: una realtà che unisce diversi nuclei familiari di dieci nazionalità diverse, che includono numerosi rifugiati.
Come è nata questa esperienza? Grazie a due organizzazioni: la Maison de Quartier Bonnevie, che si occupa della situazione abitativa a Molenbeek (quartiere di migranti di prima e seconda generazione, fra i primi a risentire della crisi) e il Ciré (Coordination et initiatives pour réfugiés et étrangers, una coordinamento di ventiquattro organizzazioni che offrono supporto giuridico, sociale ed economico a migranti e richiedenti asilo) decidono nel 2005 di lanciare un progetto innovativo per risolvere la questione degli alloggi, sempre meno disponibili e sempre più cari. Cominciano a riunire nuclei familiari potenzialmente interessati all’esperimento che si sviluppa in collaborazione con la Commune (Municipio) di Molenbeek, quanto agli aspetti amministrativi, e il Fond du Logement de Bruxelles, rispetto a fondi e sovvenzioni.
La palazzina colorata e il grigiore del quartiere
Malgrado non si tratti affatto di un cohousing, anzi al contrario gli spazi comuni risultano piuttosto limitati per evitare conflitti, su esplicita richiesta delle famiglie, tutta la fase di progettazione è stata impostata alla presa di decisioni partecipativa e condivisa.
Il risultato è un edificio a due piani di cui le famiglie (grazie al supporto del Fond du Logement de Bruxelles) sono proprietarie. Un edificio coloratissimo (ogni unità abitativa ha un colore diverso) che ospita settantotto persone (di cui oltre la metà bambini) che è una perfetta rappresentazione della meticciato di Bruxelles e di Molenbeek in particolare e che spicca nel grigiore dei logements sociaux (case popolari) che lo circondano.
In effetti, raccontano Fadma e Lahoussine (la coppia di origine marocchina che mi accoglie nel giardino) quando nel 2010 le famiglie entrano finalmente nelle loro nuove case (in realtà c’è voluto solo un anno per costruire materialmente l’edificio) subentra un problema inaspettato: i vicini, che abitano proprio quei palazzoni grigi che sono i logements sociaux non vede di buon occhio questo nuovo edificio popolare che sembra piuttosto un casa incantata. Eppure le persone che vi abitano hanno tanto in comune. Non accade niente di grave, ma una certa tensione fra vecchi abitanti e nuovi arrivati risulta palpabile….
Come ricucire le relazioni? L’associazione Espoir, di cui Lahoussine è fondatore e animatore, ha un’idea: fra il nuovo edificio e i grigi palazzi alveare c’è una piccola striscia di terra di proprietà del comune (come del resto i palazzi e il terreno su cui sorge la casa passiva) piena di spazzatura e detriti ed ecco che, come in tante altre città d’Europa, si decide di riappropriarsene, di restituirle una funzione trasformandola nel giardino Marjorelles.
Un orto che diventa un ponte
Solo che questa volta non si tratta solo di ricostituire spazi verdi o di autoprodurre, questa volta il giardino-orto diventa un vero e proprio ponte con gli abitanti del palazzo accanto che vengono coinvolti nell’impresa. E passo passo comincia a diventare anche uno spazio di aggregazione, per gli abitanti dei due palazzi prima, poi per il quartiere e infine anche per la città nel suo insieme.
Nascosto dal grigiore delle case popolari, il giardino Marjorelles diventa luogo di feste di quartiere, di gioco per i bambini, di eventi interculturali aperti alla città, di mostre di creazioni di moda di alcune cooperative di donne, di scambio di saperi (non solo legati alla terra) e naturalmente di autoproduzione, di sostenibilità ambientale (è infatti fra le tappe di alcuni giri in bici organizzati dalle associazioni di ciclisti e fa naturalmente parte della rete degli orti di Bruxelles) e di partecipazione: settanta metri quadrati nei quali si sperimenta ogni giorno una società diversa.
*Elisabetta Cangelosi, ricercatrice in Scienze sociali, si occupa di beni comuni, in particolare di acqua (una sua intervista a Anne Le Strat, assessora alle acque del Comune di Parigi, sulla ripubblicizzazione la trovate QUI) e fa parte dello European Water Movement di Bruxelles. Collaboratrice di Comune-info, vive tra Palermo, Roma e Bruxelles.
DA LEGGERE
Nella periferia di Barcellona, un gruppo di pensionati ha ricavato orti da fazzoletti di terra abbandonati. Ciò che rende questa storia interessante non è il fatto che regalano ciò che raccolgono, ma che hanno ridato vita a un pezzo di città
Gli orti di tutto il mondo (Mariella Bussolati)
«Ho viaggiato per visitare gli orti-comunitari – scrive l’autrice di Orto diffuso -, per capire perché gli abitanti delle città europee animano un movimento sempre più grande, che rivendica gli spazi abbandonati non per fare parchi ma per nutrire la terra, i quartieri, la gente»
L’euro degli orti urbani (Luigi Di Paola)
Il fenomeno degli orti e dei giardini condivisi si diffonde in Europa
Un sito cerca di trovare un coltivatore per ogni spazio agricolo disponibile
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