Un rapporto internazionale, malgrado i dati sulle emissioni derivate da attività militari siano frammentari, incompleti o nascosti in attività civili, dimostra che se le forze armate mondiali costituissero una (odiosa) nazione, questa sarebbe la quarta per emissioni di CO2. Un confronto? Le emissioni globali delle vetture per il trasporto passeggeri, giustamente messe ovunque in discussione (almeno in teoria), sono minori. Sarà per questo che nel governo italiano ora c’è anche il presidente della Confindustria delle imprese militari
I militari sono i vandali ambientali privilegiati. Le loro attività quotidiane sono al di sopra della legge civile e sono protette dall’esame pubblico e governativo, anche nelle “democrazie” (Joni Seager, Patriarcal Vandalism. Militarism and Enviroment 1999, p. 163). Il 10 novembre, in occasione del panel virtuale nell’ambito della COP 27, The Military Emission Gap. Annual Update 2022, è apparso il rapporto Estimating the Military’s Global Greenhouse Gas Emissions a cura di Stuart Parkinson, direttore di Scientists for Global Responsibility (SGR), e di Linsey Cottrell, responsabile delle politiche ambientali del Conflict and Environment Observatory (CEOBS). Il rapporto ha lo scopo di riaffermare la necessità di inserire il settore militare globale – una voce importante della spesa dei governi e che consuma una enorme quantità di combustibili fossili – nel conteggio delle fonti di produzione dell’inquinamento da gas climalteranti.
A partire dal protocollo di Kyoto del 1997 la volontà dei governi di non incorrere in possibili restrizioni delle attività militari è stata all’origine dell’esenzione accordata alle forze armate dei vari paesi dal segnalare alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) un consuntivo delle proprie emissioni.
“Le linee guida dell’Intergovernmental Panel on Cimate Change (IPCC) – si legge nel rapporto – stabiliscono che i vari paesi debbano trasmettere le entità delle emissioni dovute ad attività militari alla UNFCCC, ma l’accordo di Parigi del 2015 ha reso volontarie queste segnalazioni […]. I problemi che ne derivano sono stati ampiamente trascurati dalla comunità scientifica sul clima e l’ultimo rapporto dell’IPCC, il sesto, menziona solo di sfuggita il settore militare” che quindi non rientra nelle negoziazioni sugli obiettivi di riduzione delle emissioni nell’ambito della UNFCCC (p. 2).
I dati sulle emissioni derivate da attività militari, benché frammentari, incompleti o inclusi (nascosti) all’interno di altre categorie di attività civili, come l’aviazione e la navigazione, possono comunque fornire una base per stimare l’impronta di carbonio del settore militare globale.
Un primo indicatore è quello delle spese militari. Secondo il Climate Watch 2022, nel 2019 circa il 60 per cento delle emissioni globali provenivano da dieci paesi – Cina, Usa, India, Indonesia, Russia, Brasile, Giappone, Iran, Canada e Arabia Saudita – paesi che, ad eccezione dell’Indonesia, comparivano anche tra i primi venti che presentavano le spese militari più elevate (tabella A1a, p. 12).
Un altro indicatore è l’entità del personale delle forze armate. Dalle statistiche sul personale e da altre fonti militari o indipendenti, Parkinson e Cottrell hanno estrapolato alcuni dati relativi a Stati Uniti, Regno Unito e Germania per stimare la media delle emissioni di CO2 delle attività militari stazionarie pro capite: Regno Unito (dal 2017 al 2019): 5 tonnellate; Germania (2018-2019): 5,1 tonnellate e Stati Uniti (2018): 12,9 tonnellate (p. 4). Benché questi dati si riferiscano solo a tre paesi, nell’insieme essi rappresentano il 45 per cento della spesa militare globale, il 14 per cento delle emissioni totali e il 9 per cento del personale militare attivo.
L’estrapolazione da altre fonti, sia militari che indipendenti, dei dati relativi alle attività mobili e di approvvigionamento, ha consentito una valutazione complessiva delle emissioni del settore militare globale in 1.600 – 3.500 milioni di tonnellate (valore medio: 2.750) che rappresentano il 3,3 per cento – 7 per cento delle emissioni globali (valore medio: 5,5 per cento).
Non mi soffermo sui criteri e sulle modalità di calcolo adottate per l’elaborazione delle stime (per cui rimando alle pagine 3 e 4 del rapporto), ma solo sulle valutazioni complessive delle impronte di carbonio in milioni di tonnellate distinte per regioni geopolitiche (p. 8).
Regioni geopolitiche | Stime (valori più elevati) | Stime (valori più bassi) |
Asia e Oceania | 1.766 | 833 |
Medio Oriente e Nord Africa | 480 | 226 |
Nord America | 396 | 187 |
Russia ed Eurasia | 392 | 185 |
Europa | 206 | 97 |
America Latina | 160 | 76 |
Africa Subsahariana | 84 | 40 |
Totale | 3.484 | 1.644 |
% sul totale delle emissioni globali | 7,0% | 3,3% |
Come valutare le dimensioni delle emissioni derivanti da attività militari in base a queste stime? Le si possono confrontare, ad esempio, con quelle delle vetture per il trasporto passeggeri che nel 2019 sono state di 3.200 milioni di CO2 e rispetto alle quali le emissioni militari rappresenterebbero l’85 per cento. Nel complesso, se le forze armate mondiali costituissero una nazione, questa sarebbe la quarta per emissioni di CO2 dopo Cina, Usa e India e presenterebbe valori superiori alle emissioni della Russia (p. 10).
Questi dati, di per sé allarmanti, sono ampiamente sottostimati. Infatti, riferendosi a un periodo precedente al 2020, non includono i mutamenti avvenuti con la pandemia né quelli derivati dagli aumenti delle spese militari a partire dallo scoppio della guerra in Ucraina, né le emissioni causate dagli impatti della guerra guerreggiata: esplosioni, incendi e altri danneggiamenti alle infrastrutture e agli ecosistemi, né quelle derivate da attività di ricostruzione dopo i conflitti, e neppure quelle relative alle cure ai sopravvissuti. Stime parziali per alcune di queste attività sono state avanzate da Perspectives Climate Group. Tutti questi fattori, se presi in considerazione, innalzerebbero sensibilmente la percentuale del 5,5 per cento.
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Per comprendere la reale entità dell’impronta di carbonio del settore militare globale, si legge nelle conclusioni, sono necessarie nuove modalità di rilevazione di elaborazione dei dati. Utili strumenti a questo scopo sono i criteri messi a punto da CEOBS nella recente pubblicazione Framework for Military Greenhouse Gas Emission Reporting rivolta alle forze armate, ai governi e alle organizzazioni della società civile.
Le stime avanzate da SGR e CEOBS offrono a coloro che da anni affermano l’urgenza di disporre di informazioni dettagliate e trasparenti sulla reale entità delle emissioni di CO2 derivate da tutte le attività militari (studiosi e studiose, scienziati e scienziate, organizzazioni pacifiste e della società civile) dati concreti, solide argomentazioni e indicazioni precise su cui basare la ricerca e l’attivismo.
Tuttavia, le emissioni di CO2 non sono l’unico indicatore dell’impatto delle attività militari sul clima. Attività estremamente distruttive sono quelle legate alla geoingegneria volte a stravolgere il clima per usarlo come arma di guerra, concepite e condotte in segretezza.
L’impegno per l’inclusione delle emissioni di CO2 derivanti dalle attività militari potrebbe essere un primo passo non solo verso la loro riduzione, ma soprattutto verso l’abbattimento del velo di silenzio, privilegio e segretezza che avvolge l’operato militare e la sua distruttività, lo protegge dalla responsabilità pubblica, infonde nelle organizzazioni militari il senso di uno scopo superiore e di invulnerabilità.
[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
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