L’invalsi non basta più, bisogna che ogni scuola si crei la propria piccola invalsi e produca tanti grafici colorati accompagnati da abbondanti dosi di retorica valutativa. In questo articolo Gianluca Gabrielli, insegnante di scuola primaria, condivide alcune riflessioni dopo aver sperimentato con la sua classe cosa sono quelle che vengono chiamate “prove comuni”: con grande precisione e diversi esempi spiega perché contribuiscono a danneggiare la didattica e perché ogni volta che si prova a trasformare in un dato numerico la valutazione di un processo multiforme come quello dell’apprendimento si impoverisce l’osservazione della realtà

Èinutile, non ce la posso fare… Sono quasi trent’anni che insegno nella scuola primaria e anche con la migliore disposizione possibile non riesco a fare un solo passo nella correzione di queste “prove comuni” senza fermarmi più e più volte di fronte a ostacoli che mi sembrano insormontabili. Il protocollo dice che dovrei attribuire dei punteggi sulla base delle risposte dei bambini e delle bambine. Ho di fronte a me una moltiplicazione, il risultato in riga è corretto, il risultato in colonna no; devo attribuire il punto? Un altro bambino esegue un’operazione diversa da quella che ho assegnato poiché copia erroneamente il moltiplicatore della riga superiore: la sua operazione è corretta, ma evidentemente il risultato non corrisponde. Ha sbagliato? Ancora: due bambini fanno errori nei calcoli parziali, uno sbaglia un 6×3, un altro l’addizione finale dei risultati intermedi: come faccio ad assegnare lo stesso valore “zero” a questi errori? E questa è solo una moltiplicazione. Come faccio, alla mia età, a cancellare la qualità degli errori standardizzandoli nella secca alternativa sì/no? Che senso ha?
È la prima volta che mi trovo ad eseguire prove comuni. Sono state introdotte nel mio istituto il mese scorso come procedura obbligatoria per il monitoraggio del Piano di miglioramento incluso nel Ptof. Insieme ad alcuni colleghi abbiamo proposto una procedura di miglioramento alternativa, che ponesse al centro del confronto l’azione didattica di noi insegnanti e non la raccolta di dati quantitativi dalle prove degli studenti; proponevamo di ragionare sul processo di insegnamento-apprendimento, su come noi docenti insegniamo le cose, sulle casistiche che ci troviamo di fronte giorno per giorno, e non di puntare sulla costruzione di grafici individuali e di classe a partire dai punteggi ottenuti in prove standardizzate. Non è stato però possibile votare questa alternativa. Sembra che il ptof e il suo figlioccio denominato Piano di miglioramento siano affamati di numeri, hanno bisogno di quantità e non di qualità. Ora che sono venuti a mancare i voti sembra che la scuola primaria italiana si senta smarrita, ormai confrontarsi sui processi di insegnamento-apprendimento senza avere un grafico di riferimento purché sia appare azione inutile o ingenua. L’invalsi non basta più, bisogna che ogni scuola si crei la propria piccola invalsi e la propria piccola raccolta dati longitudinale, tanto che anche i dubbi di opportunità sulla privacy ormai sembrano caduti a tutti i livelli.
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Inizialmente avevo pensato di presentare un’opzione di minoranza, rivendicando il diritto – che per fortuna ancora esiste nel nostro ordinamento scolastico – di scegliere una metodologia minoritaria nel momento in cui non si condivida l’imposizione erga omnes. Poi però ci ho ripensato. Ho ritenuto più faticoso ma comunque di un certo interesse provare a stare dentro questo processo per vedere come avrebbero funzionato le prove comuni e quindi per mettere alla prova dei fatti le mie riflessioni.
Le prove comuni, come i testi invalsi, sono dedicati a due tipologie di apprendimento: la matematica e la comprensione del testo. Io che insegno matematica in una quarta di scuola primaria avrei somministrato i test di quella materia; insegno anche scienze e storia, e tecnologia, e spesso la didattica è interdisciplinare, ma questo purtroppo risulta sempre più trascurabile. È interessante vedere come a vent’anni dall’introduzione dei testi invalsi, queste due tipologie di attività (matematica e comprensione) siano ormai diventate le uniche importanti, le sole da “misurare”, le uniche ritenute degne di riflessione. Personalmente ritengo che l’impoverimento che ne è derivato alla didattica sia drammatico: tutti gli altri ambiti di apprendimento sono diventati secondari; la conoscenza del passato, la produzione di testi scritti, l’argomentazione orale, le attività manipolative di tipo creativo: tutto trascurabile. Anche la mente degli insegnanti progressivamente ha incorporato queste nuove gerarchie di valori, tanto da replicare all’interno della scuola gli stessi criteri prodotti vent’anni fa dall’agenzia nazionale che ha intrapreso dall’alto questo rinnovamento in senso riduzionista dell’insegnamento.
Ma torniamo alle prove comuni. Nell’opinione di chi le propone il vantaggio di queste prove deriverebbe dalla preparazione affidata direttamente agli insegnanti nelle scuole, evitando così la genericità delle prove Invalsi, uniche sul territorio nazionale. L’obiettivo esplicitamente dichiarato sarebbe di costituire una banca dati che segue il bambino e la bambina, nonché la classe, per molti anni (ad esempio dalla quarta elementare la terza media) e quindi tale procedura potrebbe attestare in maniera oggettiva (perché numerica) il miglioramento sia della scuola sia del singolo alunno, oppure il mancato miglioramento che quindi attesterebbe la scarsa efficacia dell’insegnamento. Non solo: le prove verrebbero costruite non sulle conoscenze ma sulle “competenze”, parola magica che ormai in pedagogia nobilita ogni pensiero, in modo da rendere qualsiasi attività rivelatrice di competenze (appunto) profonde e comparabili.
Francamente non ho capito come si possano confrontare delle prove di matematica fatte ad anni di distanza per valutare un eventuale miglioramento (distinguendolo dagli effetti della crescita e del cambiamento originati in soggetti giovani dalle loro esperienze sociali). Inoltre mi inquieta la costruzione di queste banche dati progressive nel tempo e legate agli specifici alunni, praticamente un portfolio pluriennale di valutazioni quantitative. Non mi riferisco qui tanto al contenuto di queste prove, su cui tornerò più avanti, quanto ai profili di privacy e di tutela dei singoli alunni. Ma tant’é.
In epistemologia la “competenza”, al singolare, è la capacità di utilizzare un modello, sperimentato con successo in un campo, astraendone le caratteristiche che potrebbero essere funzionali a affrontare un caso o un problema nuovi. Sono definiti competenti coloro che usano facoltà, conoscenze, esperienze pregresse per osservare e leggere un fenomeno e applicarvi il modello di cui dispongono. Possono essere competenti un contadino, un medico, un insegnante, non un esecutore passivo.
Al plurale, come vengono declinate oggi, le “competenze” sono invece l’analogo di performances, la capacità di assicurare comportamenti attesi, eliminando distorsioni, rumore, imprevisti.
Gli aspetti più interessanti del concetto si capovolgono nel suo opposto. Nessuna competenza (al singolare) potrà mai venire “misurata oggettivamente” attraverso prove standardizzate e punteggi, che ne costituiscono semmai la negazione.
Solitamente la preparazione delle prove comuni viene messa a punto durante programmazioni o riunioni di interclasse. Nel nostro caso la maggior parte del tempo abbiamo discusso dell’utilità o meno di questa raccolta dati, per cui alla fine sono emerse delle prove già sperimentate in passato. La cosa che mi ha colpito immediatamente è che se la parola competenza corrisponde a queste prove allora le competenze erano già dominanti negli anni sessanta il secolo scorso. Due addizioni, due sottrazioni, due moltiplicazioni, due divisioni, un problema, un ordinamento di numeri e la codifica di valore posizionale di alcune cifre. Tutte cose che si fanno in classe, nulla da dire, ma certo alla maggior parte di queste attività corrispondono abilità di calcolo e non competenze.
Ad esempio, il problema che è stato scelto, nella correzione avrebbe portato punti per svariati aspetti: la scelta di operazioni appropriate, la correttezza dei calcoli, la correttezza delle risposte, la corretta individuazione dei dati. In altri casi so che gli indicatori sono ancora più numerosi, in altri ancora invece si privilegia la scelta dell’operazione. Tutto sta nel mettersi d’accordo su cosa si vuole “contare” quando si corregge un problema. Ho provato a sostenere che se ci sta a cuore la capacità di risolvere problemi conviene concentrarsi sull’individuazione delle operazioni, ma tale ragionamento non è stato ritenuto abbastanza stringente da far modificare il protocollo.
Passando alla fase operativa, quando ho assegnato le prove mi sono trovato a dover affrontare numerose scelte che non erano necessarie nella mia normale pratica di attività didattica e valutazione: dovevo adattare le prove ai bambini reali che avevo di fronte oppure dovevo fare il somministratore neutro? Facciamo degli esempi in generale.
Quasi sempre nelle classi ci sono bambini dagli svariati background culturali e linguistici, giunti da poco o da molto dall’estero, con maggiore o minore dimestichezza con l’italiano. Normalmente in questi casi si affianca al testo dei problemi in italiano la traduzione usando Google translate. Spesso inoltre si aiutano i bambini anche rileggendo e parafrasando insieme. Ma è lecito? E questi interventi ci permettono di comparare i risultati con quelli degli altri bambini? Sono legittimi gli interventi quotidiani degli insegnanti per aiutare a decodificare il lessico dei problemi? È lecito modificare le prove per i bambini in possesso di una certificazione organizzandole sulle loro conoscenze? Domande non da poco, che sollevano questioni di grande importanza. Nel dubbio io ho operato come ho sempre fatto, intervenendo abbondantemente e rendendo le prove comuni davvero poco comuni anche all’interno della mia stessa classe. Ma le difficoltà non erano solo queste.
Un esercizio ad esempio chiedeva di riorganizzare “in ordine decrescente” una serie di numeri. Io so che tutti gli alunni della classe sanno operare in questo modo, ma so anche che molti alunni della classe non conoscevano il termine decrescente. Qui ho provato a non intervenire, citando la parola e il suo opposto solamente una volta, una settimana prima. L’effetto di questa mia reticenza è stata la produzione di alcuni errori. Il primo, preventivabile, consistente nell’organizzazione dei numeri in modo crescente. Ma è emerso anche un altro errore: due bambini hanno riorganizzato sì in ordine decrescente, ma non i numeri bensì le cifre dei singoli numeri. Ora, posto che io so che l’ordinamento di numeri è padroneggiato dalla totalità della classe, come devo comportarmi rispetto a questi errori? Mi sbagliavo io rispetto a questa competenza oppure la difficoltà segnalata da questi quattro bambini è di natura lessicale (significato di “decrescente”, confusione tra “cifra” e “numero”) e non matematica?
Passiamo al problema. Io non ho mai posto molta attenzione ad istituire un protocollo di risoluzione rigido. Parlo di “problemi brevi” e “problemi lunghi”. Per la soluzione del problema breve chiedo l’operazione ove sia necessaria e la rispostina tra parentesi sul significato del numero ottenuto, con la possibilità di aggiungere per iscritto qualsiasi riflessione e dubbio. Di fronte a questa prova comune però sono stato posto nella condizione di dover spiegare un protocollo rigido e classico della risoluzione del problema poiché l’attribuzione di punteggio vincolava a quel protocollo come garante della specifica competenza. Ho deciso di non farlo, un’altra piccola disobbedienza, e continuo a ritenere che non sia corretto valutare la capacità di risolvere problemi osservando e valutando la correttezza dei calcoli.
Sulle prove di calcolo ho accennato qualcosa in apertura dell’articolo, qui aggiungo solamente che uno degli aspetti più interessanti per chi insegna matematica è proprio scoprire l’origine degli errori, spesso di natura diversissima e a volte difficilmente immaginabile da noi adulti. Basti pensare che ultimamente ho imparato che in bengalese il numero quattro si scrive “8” e in arabo il numero 6 si dice “setta” e che i numeri si scrivono da sinistra a destra ma si leggono da destra a sinistra: chi sbagliasse a partire da questi elementi è matematicamente meno competente? Quindi la cosa che più mi avvilisce in queste prove comuni è la genericità delle indicazioni di errore, qualsiasi errore vale 0 e qualsiasi calcolo corretto vale 1. La correzione della prova comune manda in vacanza tutto il sapere che come insegnanti acquisiamo nel tempo e che mettiamo al lavoro giorno per giorno in classe, nel corpo a corpo con le bambine e i bambini. Che senso ha?
C’è un filo che unisce le prove invalsi e le prove comuni, al di là della confusione tra valutazione e misurazione: è l’effetto inibitorio sull’attività didattica come sperimentazione continua. Quando le prove strutturate divengono il “metro” oggettivo della qualità didattica, ogni percorso divergente assumerà l’aspetto di ingenua deviazione dalla via accreditata e di inutile perdita di tempo. Chi mai si avventurerà più su strade non battute, seguendo suggestioni che provengono dalle esperienze inusuali raccolte in classe, oppure dalle letture e dalle discipline che si occupano di tematiche affini ma non immediatamente sovrapponibili al curricolo? Dove è andata a finire l’interdisciplinarità che fino a una decina di anni fa veniva considerata uno dei cardini della costruzione del programma? Ma come si fa a ragionare in maniera interdisciplinare se la matematica viene valutata per il suo carattere esecutivo e protocollare? Tutte le discipline hanno bisogno di pensiero matematico (una linea del tempo in storia, una temperatura in scienze…) ma poiché questo pensiero non è trasferibile facilmente in prove strutturate, si decide di optare per i vecchi calcoli e si valorizza un modello che non sta a perdere tempo con interdisciplinarità poco addomesticabili.
Al termine delle prove comuni gli istituti che seguiranno fino in fondo questa strada avranno dei bei grafici relativi alle diverse classi e alle diverse scuole da confrontare l’uno con l’altro. Il grafico dei problemi mescolerà errori di calcolo, errori di comprensione, difficoltà lessicali, svantaggi collegati alla scelta del docente di non adottare il protocollo più diffuso… Il tutto in nome del miglioramento della qualità della scuola.
La questione di fondo è che ogni volta che si prova a trasformare in un dato numerico la valutazione di un processo multiforme come quello dell’apprendimento si impoverisce l’osservazione della realtà. La valutazione che mette in opera un insegnante rispetto anche all’apprendimento di una semplice operazione è qualcosa di complesso, pieno di sfumature; non possiamo definirlo oggettivo perché è un’operazione consapevole della propria fallibilità, ma proprio per questo più aderente alla realtà rispetto ad una marea di punteggi che non sanno cosa vanno a contare. Ma soprattutto sulla base di una valutazione dell’insegnante è possibile ragionare sul processo di insegnamento e quindi operare un feedback sensato per intervenire sulla produzione di errori.
La mancanza di attenzione alla natura degli errori significa l’impossibilità di risalire da essi ai processi di insegnamento, l’assenza di ragionamento riflessivo su come insegniamo, sul contesto di apprendimento e sulla rete di relazioni che si instaura nella classe. Queste carenze rendono velleitaria ogni ricetta per il miglioramento. Certo, tanti grafici e tanti dati numerici produrranno uno sfavillio pseudo oggettivo di retorica valutativa, l’assolvimento burocratico sarà assicurato, ma la sostanza rimarrà risibile.
Credo che l’unica cosa che potrà uscire da queste prove sarà l’invito ai docenti che insegnano in una classe che ha prodotto grafici di scarso livello di dedicare genericamente più tempo alla matematica, sottraendolo alle altre attività. Ogni altro ragionamento sarà precluso dal fatto che l’attenzione è stata posta sulla quantificazione degli errori senza pensare a cosa si andava a contare e senza accettare che spesso le cose importanti non sono contabili.
Quando ancora doveva essere approvato questo Piano di miglioramento, nelle discussioni alcuni di noi hanno provato a sottolineare l’importanza della conoscenza che noi insegnanti abbiamo dei nostri allievi e allieve, l’esperienza dei tipi di errori, l’esigenza di confrontarci sui nostri modi di insegnare piuttosto che sugli esiti: la proposta alternativa che si chiedeva di votare mirava proprio a spostare l’attenzione sulla discussione tra colleghi in merito all’insegnamento piuttosto che sulla raccolta dati delle prove comuni, lasciando queste ultime volontarie e comunque non finalizzate alla quantificazione comparativa. In fondo ciò che si chiedeva non era qualcosa di rivoluzionario: riflettere sui processi e non sugli esiti dell’apprendimento. Si chiedeva troppo?
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*Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
Parole sante. Com’è possibile che si possano affermare queste mode pseudodocimologiche che non aiutano certo a migliorare l’insegnamento, anzi, producono gli esiti negativi descritti.
È comodo scaricare ka”coloa” sulle prove INVALSI,fingdnfo di non sapere che esse servono a valutare la qualità dell’offerta formativa degli Istituti, non quella degli apprendimenti degli alunni…
La”colpa” in realtà è del Collegio Docenti che ha preso un decisione stupida e controproducente; ed anche del DS che non ha vigilato affinché il Colldgio delibera in base alle competenze che ka legge gli attribuisce … e la legge attribuisce al Collegio il compito di “stabilire i CRITERI DI VALUTAZIONE”,non gli strumenti e i metodi per farla (la valutazione)…