L’intensa relazione tra femminismo e commons si nutre di storiche intersezioni e di suggestive connessioni nelle sempre più numerose e differenti esperienze che maturano nei territori. A Reggio Emilia, ad esempio, l’autogestione di Casa bettola bene comune è stata segnata da quando la Casa ha ospitato al piano terra un gruppo di donne con bambine e bambini. La gestione collettiva degli spazi, i laboratori finalizzati a far conoscere il progetto, la scuola di italiano di donne per donne e le tante attività complementari, tra utilità e convivialità, si sono intrecciate con le assemblee di condivisione e le altre iniziative ospitate da questa straordinaria esperienza di autogestione. I laboratori di teatro hanno cominciato a includere appuntamenti di teatro per bambine e bambini, intanto si sono moltiplicate le presentazioni di libri e i concerti, le iniziative della polisportiva popolare e dell’Orchestrina instabile, i mercatini con prodotti bio locali e le “pizzate”, ma sono nati anche il Guardaroba solidale con vestiti usati per l’infanzia e il forno a legna in terra cruda a disposizione di chiunque, nel quartiere, volesse cuocere il pane “in comune”. La strada aperta dalle donne in tanti angoli del mondo favorisce la nascita di relazioni di mutualismo a cominciare da un modo diverso di vivere la vita quotidiana

“Il 2 giugno 2009 un gruppo di donne e uomini ha deciso di aprire le porte di una casa cantoniera abbandonata nella prima periferia di Reggio Emilia per restituirla al quartiere e alla città, cambiando il suo destino; invece di essere venduta all’asta è stata recuperata e trasformata in un bene comune. Rovesciare l’abbandono è, forse, la traduzione di tutti i nostri linguaggi, l’esperanto del nostro fare quotidiano”
(Casa Bettola. Da spazio abbandonato a bene comune)
Quando hanno cominciato ad animare e a dar forma allo spazio – ancora in cerca d’autore ma già ricchissimo di potenzialità – di quella che sarebbe diventata Casa Bettola Bene Comune, è assai probabile che le abitanti della casa cantoniera occupata non abbiano pensato di essere le continuatrici di una tradizione dei beni comuni che ha avuto le donne come assolute e lungimiranti protagoniste. Ma di certo sono state capaci di esprimere, attraverso la condivisione di risorse, strumenti e, soprattutto, significati, una consapevolezza sociale e uno spirito di comunità che le ha rese a buon diritto partecipi della creazione di un pezzo di storia dei beni comuni nel nostro Paese. Una storia che riguarda non tanto e non solo l’aver abitato per necessità uno spazio che ha permesso loro di avere un tetto sulla testa in un momento particolarmente difficile della loro vita, ma soprattutto l’aver originato un processo di costruzione di senso intorno a un bene comune recuperato, sottratto all’abbandono e all’oblio e restituito nel tempo alla popolazione locale, l’ex casa cantoniera di Reggio Emilia ribattezzata, in virtù della sua collocazione geografica e storico-politica, Casa Bettola.
Come ricostruisce Silvia Federici, dalla prima fase dello sviluppo capitalista fino ai giorni nostri, le donne sono state protagoniste nella lotta contro l’appropriazione delle terre comuni in Inghilterra, negli Stati Uniti e in altre parti del mondo e hanno difeso più strenuamente “le culture comuni che i coloni europei tentavano di distruggere” (Federici, 2004; 2012), ricreando forme di vita collettiva laddove il colonialismo aveva cercato di fare tabula rasa delle esperienze comunitarie. Ancora le donne, in tempi più recenti (gli anni Ottanta del secolo scorso), hanno messo in atto straordinari tentativi di collettivizzare il lavoro riproduttivo, inventando in Cile e in Perù dispositivi come le ollas communes (pentole comunitarie) per “calmierare”, in presenza di un pesantissimo processo di inflazione, i costi della riproduzione e contrastare la povertà e la violenza statale e maschile (Fisher, 1993; Andreas,1985). E sono sempre le donne che oggi, di fronte a una nuova fase di accumulazione primitiva, praticano in modo massiccio, in diverse aree del pianeta, un’agricoltura di sussistenza, opponendosi alla mercificazione delle risorse della natura che banche cosmiche, multinazionali e perfino organizzazioni internazionali non profit tentano di imporre.
Ecco, la storia di Casa Bettola, del suo costituirsi in progress come bene comune non “naturale” ma frutto di una virtuosa costruzione sociale, è legata a filo doppio ai significati che le donne per prime hanno attribuito alla Casa e alla Comunità. Dal giorno in cui, nell’appartamento d’emergenza allestito al piano terra per un gruppo di donne con bambine e bambini, si sono organizzati i festeggiamenti per il compleanno della figlia di una delle abitanti della Casa, migrante di origine marocchina, la vita e la comunità che in quella casa e intorno a quella casa stava nascendo non sono state più le stesse. Dopo la festa di compleanno, il tè per le amiche e i giochi organizzati per le figlie e i figli, con la collaborazione delle famiglie variamente “assortite” che contribuivano alla gestione dello spazio. E poi gli incontri progettuali in cucina – resa più accogliente dopo l’inserimento del mobilio messo in comune – per pensare e decidere insieme come gestire lo spazio, con le piccole grandi strategie di autogestione pensate per rendere meno problematica e onerosa, per chi aveva figli, l’attività di progettazione e gestione degli spazi. E ancora: la creazione di uno Spazio Incontro, pensato per genitori e figli insieme – alcuni educatori ne hanno progettato e realizzato l’arredamento utilizzando in buona parte materiali di recupero e disponendo i mobili in modo tale che la presenza degli adulti fosse il meno necessaria possibile -; laboratori finalizzati a far conoscere lo spazio e il progetto ad esso collegato, realizzati con materiale esclusivamente di riciclo; l’apertura di una Scuola di italiano di donne per donne – complice la chiusura di un servizio comunale funzionante nel quartiere che organizzava anche corsi di italiano per migranti e l’esperienza di altri spazi sociali che avevano già gestito attività di questa natura, quali Città Migrante e il Laboratorio Aq16 – con orari e lezioni costruite sui bisogni e desideri delle partecipanti e attività complementari, tra utilità, convivialità e piacere.
In questa tensione collettiva alla progettualità molti nuclei famigliari compositi, oltre alle attiviste e agli attivisti single, si sono interessate alla gestione dello spazio e hanno cominciato a frequentare le assemblee, momento cruciale della condivisione e decisionalità comunitaria, socializzando idee progettuali e saperi metodologici e comunicando, attraverso essi, la propria visione della vita e della città: sono nati così il laboratorio di teatro per bambine e bambini e la scambioteca, un guardaroba solidale con vestiti usati per l’infanzia, il forno a legna in terra cruda (a disposizione di chiunque, nel quartiere, volesse cuocere il pane “in comune”), il mercatino con prodotti biologici del territorio, la “pizzata” settimanale, momento di condivisione e convivialità per il quartiere e l’intera città, oltre che fonte di risorse per l’autofinanziamento.
La figura dell’attivista subì in quel periodo un’importante mutazione, attraverso la riappropriazione della quotidianità personale e collettiva, inclusi gli effetti devastanti sulla vita di molte e molti della terribile crisi, e il recupero, per questa via, di una visione politica non avulsa dalla dimensione della vita vissuta, non sprezzante nei confronti delle questioni, materiali e non, che l’esistenza pone. Fu uno dei momenti in cui si è resa evidente per le/i militanti dello spazio rigenerato la necessità di passare da uno status di “attivista dei beni comuni” a quello di “costruttore/costruttrice di beni comuni e di comunità solidali”. Le donne avevano mostrato la strada.
“È già politica” direbbe Carla Lonzi, facendo emergere un punto importante di intersezione tra femminismo e beni comuni. E in questo caso la sua intuizione si rivela più appropriata che mai: estendere lo spazio politico a dimensioni trascurate o inedite, escluse dal campo della biopolitica nella sua configurazione neoliberale, che si avvinghia strategicamente al sistema patriarcale, origina una postura trasformatrice tipica del femminismo, capace di rovesciare il paradigma biopolitico che “si accanisce sulla vita” mortificandola o destituendola di valore (Dini, 2018).
La politica della “vita materiale”, della ricomposizione tra bisogni (talvolta emergenze) e desideri/intenzioni di rovesciamento delle logiche di predazione e deprivazione del sistema mercantilistico, aiuta ad “abitare” lo spazio e il tempo – l’altra dimensione cruciale sia della politica femminista che della teoria/prassi dei beni comuni – e a cercare un posto nel mondo rifuggendo dall’isolamento e mettendosi in relazione, riconquistando il “quotidiano collettivo” nella duplice e concatenata forma dell’impegno di produzione e di riproduzione sociale (Ruffini, 2017). Mettere in comune risorse di spazio-tempo che da sole sarebbero territori desertificati privi di oasi e riconnettere i due processi la cui separazione costituisce uno dei pilastri della società patriarcale e neoliberale: ciò che rappresenta un punto nodali delle pratiche di lotta del movimento femminista e si incarna nella centralità attribuita alle relazioni orizzontali strappate alla sfera del dominio, alla vita delle comunità e collettività, alla cura delle “cose” e delle persone, all’attenzione al vivente in tutte le sue manifestazioni, alla vita materiale e alle soggettività, diviene anche il cardine della pratica dei beni comuni.
A Casa Bettola, da una situazione d’emergenza era nato uno spazio di socialità, di condivisione, di collettivizzazione delle attività di riproduzione sociale per dirla in termini più politici, incluse le attività di relazione e di piacere. E fu da lì che cominciarono a prendere forma le prime manifestazioni del “comune”, un modo autodeterminato e orizzontale di gestire uno spazio collettivo, sottratto all’abbandono e all’incuria, alla (s)vendita e a probabili future speculazioni. Di progetto in progetto, di laboratorio in laboratorio, di libro in libro, di concerto in concerto, di diritto in diritto, prendeva forma la comunità dei beni comuni: Altre Scuole Possibili, laboratorio permanente sulla scuola nato da Cobas scuola, la festa-progetto Quartiere senza frontiere, il laboratorio Arsave per rovesciare e riprogettare la città, lo sportello ADL Cobas per le lavoratrici e i lavoratori, la polisportiva popolare, la biblioteca comune, l’orchestrina instabile, l’atelier sociale, il coro accogliente, il laboratorio di fotografia InControLuce. Per citarne solo alcuni, non in ordine gerarchico né in base a una predefinita coerenza con un’identità caratterizzante ed esclusiva. La comunità delle cantoniere e dei cantonieri cresce, si allarga e sviluppa le sue identità multiple in un divenire senza soluzione di continuità, confermandosi elemento costitutivo del bene comune emergente Casa Bettola (Micciarelli, 2019).
La titolarità diffusa della casa cantoniera recuperata ha reso lo spazio “di tutti e di nessuno”. Il suo uso non esclusivo, bensì civico e collettivo, rovescia il concetto di individuo proprietario e attribuisce allo spazio-comunità lo statuto di bene comune perché va oltre la singolarità e si riappropria di bisogni fondamentali, di ciò che è necessario per la vita della comunità, promuovendo autentiche modalità di autogestione e partecipazione “dal basso” e proponendosi al tempo stesso come leva per la riattivazione collettiva di desideri. Bread and Roses.
Attraverso una tensione progettuale permanente, mai scontata e sempre aperta agli stimoli provenienti dal territorio circostante, e grazie a una processualità percepita in ogni momento come valore in sé, Casa Bettola tende al riconoscimento giuridico-formale di tale status, per mettere a disposizione di tutte e tutti uno strumento “istituzionale” di democrazia diretta e autogestione – un primo passo in tal senso è rappresentato dalla convenzione firmata con la Provincia di Reggio Emilia l’11 aprile 2019 -, ma non dimentica mai gli aspetti sostanziali e “materiali” della lotta per i beni comuni. Ed è soprattutto consapevole, come molti altri soggetti della rete dei beni comuni emergenti, della necessità di non distrarsi mai dalla lotta proclamata contro le gerarchie, i meccanismi di delega, la persistenza di forme di patriarcalizzazione dure a morire, che mina ogni giorno, nella dimensione assembleare dell’orizzontalità cercata e perseguita, le potenzialità di autodeterminazione ed autogestione.
Il mettere in comune risorse materiali, tecniche e culturali, individuali e collettive, l’“accomunamento” di mezzi e modi di riproduzione sociale di cui parla Federici – nel senso della “produzione di noi stessi come soggetti uniti da un interesse comune” – ha rappresentato per Casa Bettola la modalità primaria per dar vita a relazioni di mutualismo, cooperazione e solidarietà e per creare interessi e intenzioni collettive intorno a un bene comune recuperato. La strada aperta dalle donne, con il loro sapere esperienziale, arricchito e sedimentato fin dagli albori della storia dell’umanità, ha reso visibile la possibilità concreta di risignificare lo spazio perché, lungi dall’essere identificato come la proprietà di un soggetto, seppur collettivo, diventasse un bene fruibile da soggetti singoli con diverse provenienze, bisogni, aspettative e “non conformità”, nuclei famigliari variegati, abitanti multiformi e policromi di quel “territorio circostante” che nel tempo si è fatto sempre più grande. La vasta comunità allargata dei beni comuni impegnata nella riproduzione del Noi “costituente” e narrante. A cominciare dal desiderio di vivere un attivismo non scollegato dalla vita quotidiana ma che quella vita fosse in grado di ricomprendere fino a farne oggetto di “messa in comune” e fertile condivisione.
Bibliografia e sitografia
- aa.vv. (2019), Casa Bettola. Da spazio abbandonato a bene comune, Fotolito, Reggio Emilia
- Andreas Carol (1985). When Women Rebel: The Rise of Popular Feminism in Peru. Westport (CT): Lawrence Hill & Company
- Chinese, M.G., Lonzi , C., Lonzi, M., Jaquinta, A. (1977). È già politica. Scritti di Rivolta Femminile, Milano
- Dini Tristana (2018). C’è vita tra le crepe del dissesto. Femminismo e beni comuni. Diotima, La rivista, Numero 15-2017/2018
- Federici Silvia (2004). Caliban and the Witch: Women, The Body, and Primitive Accumulation. Autonomedia, Brooklyn (NY)
- Federici Silvia (2012). Il Femminismo e la politica dei beni comuni. DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n. 20
- Fisher Jo (1993). Out of the Shadows: Women, Resistance and Politics in South America. Latin American Bureau, Londra
- Micciarelli Giuseppe. (2019). Sabotare la competizione, hackerare il diritto. Casa Bettola. Da spazio abbandonato a bene comune. Edizioni Recos, Poviglio (RE)
- Ruffini Carla Maria (2017). Il tempo delle donne è questo. Comune https://comune-info.net/tempo-delle-donne/
Pubblicata sul Rapporto Diritti globali 2019 (Ediesse)
* Docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna e formatrice in ambito pubblico, si occupa da anni di diritti sociali e civili e di beni comuni (oggi in particolare con Arsave-Laboratorio per la città che vogliamo, Università Invisibile e Forum dei movimenti per l’acqua). Femminista da sempre, è impegnata nel movimento Non Una Di meno. Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui
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