Dopo mesi di ritardo e rinvii, finalmente la Commissione Europea ha pubblicato la proposta di direttiva sulla due diligence aziendale sostenibile. Questa normativa può essere un’occasione irripetibile per regolamentare la condotta delle aziende che hanno causato o sono collegate a violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. Il processo di cambiamento è a un punto di svolta. Servono ancora correttivi dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione europea per renderla migliore ed efficace anche per le imprese. La Campagna Abiti Puliti ha già avanzato le sue proposte

Il 23 febbraio è iniziato a Bruxelles un processo di portata storica: la Commissione europea ha presentato la tanto attesa proposta di Direttiva per la due diligence (dovuta diligenza) aziendale sui diritti umani e l’ambiente. In altre parole, si tratta di una normativa che obbliga le imprese che operano su mercati globali a fare verifiche costanti per assicurarsi che le loro operazioni non violino i diritti umani, a cominciare da quelli dei lavoratori delle loro filiere. L’obbligo è innanzitutto quello di identificare i rischi di violazioni e prevenire gli abusi; e se un abuso si verifica, di mitigarne le conseguenze, anche mediante meccanismi risarcitori. Se un’azienda viola i diritti umani e non vi pone rimedio, incorre in responsabilità e deve risarcire i danni.
Il sentimento comune, anzi forse proprio il buon senso, si potrebbe stupire: ma come, le aziende fino ad oggi potevano violare i diritti umani e non subire alcuna conseguenza? Ebbene sì, nella maggior parte del paesi del mondo. A dieci anni dall’approvazione da parte delle Nazioni Unite dei Principi Guida su Imprese e Diritti Umani, solo alcuni paesi (Francia, Olanda, Norvegia, Germania, UK) e solo molto recentemente (dal 2017 in poi) hanno approvato leggi che obbligano le imprese a dotarsi di procedure per effettuare le opportune verifiche. In Italia, nessuna legge ad oggi impone tali obblighi: quindi in Italia, oggi, le aziende possono violare i diritti umani e restare impunite.
Se la direttiva verrà approvata dal Consiglio e dal Parlamento europei (nulla è scontato, e l’incipiente guerra in Ucraina renderà i processi ancora più lenti), a questa impunità si potrebbe dare un giro di vite. Questa svolta è necessaria più che mai, perché se nel mondo ci sono persone sfruttate e ridotte in schiavitù, persone che lavorano ma rimangono povere, persone che lavorano in fabbriche malsane e insicure, e quindi sul posto di lavoro ci muoiono o si ammalano; la responsabilità sta in capo a quelle aziende che si avvalgono di quelle persone per fabbricare i propri prodotti approfittando delle loro condizioni di bisogno.
In questo il caso del tessile è emblematico, come da anni sostiene la Campagna Abiti Puliti: i brand committenti fanno ordini sempre più frequenti, costringendo le fabbriche a lavorare a cicli frenetici, pagando sempre meno per i loro ordini (la concorrenza nel settore della produzione tessile è molto alta quindi i fornitori rimangono alla mercé dai committenti). Il risultato è che i proprietari delle fabbriche tagliano sulla sicurezza costringendo la propria forza lavoro, principalmente composta da donne, a fare straordinari obbligatori e a lavorare in fabbriche insicure per salari da fame e in assenza di tutele sindacali. Tutto ciò è noto ai brand, ma poiché nessuna legge impone loro di cambiare le loro pratiche di acquisto, semplicemente non le cambiano.

Ci sono iniziative volontarie che si occupano di migliorare la sicurezza e le condizioni di lavoro nelle fabbriche, ma esse sono appunto volontarie, e quindi non tutti i brand vi aderiscono e quelli che lo fanno hanno ampi margini di discrezionalità su quali limiti darsi. Per questo motivo, servono obblighi, responsabilità, regole vincolanti e leggi. Non iniziative volontarie che spesso corrispondono a puro e semplice greenwashing.
La proposta di direttiva è un inizio, ma non è perfetta. Al momento si applicherebbe solo alle grandi imprese, ma esse sono l’1% delle imprese europee. La stragrande maggioranza delle imprese tessili, composta da PMI, rimarrebbe tagliata fuori. Inoltre, al momento il testo non è chiaro sugli aspetti chiave della responsabilità civile e c’è il rischio che le aziende possano sottrarsi alla responsabilità inserendo semplicemente nei contratti l’obbligo dei fornitori di rispettare i diritti umani. Un aspetto positivo del testo consiste nel riferimento agli standard dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro come diritti umani del lavoro (parità salariale, divieto di schiavitù, divieto di lavoro minorile, libertà di associazione sindacale, diritto alla contrattazione collettiva) di cui il processo di due diligence dovrà verificare la sussistenza.
Infine si attendono sviluppi e chiarezza sulla probabile istituzione di una autorità amministrativa che garantisca il rispetto della direttiva: da anni la società civile italiana chiede l’introduzione di una Autorità per i Diritti Umani, e questa potrebbe essere l’occasione.
Finalmente, dopo decenni di campagne, il legislatore europeo ha finalmente capito che non può rimanere inerte di fronte alla totale impunità delle aziende che sfruttano i lavoratori e danneggiano l’ambiente. Il processo di cambiamento è a un punto di svolta: speriamo che svolti dalla parte giusta della storia.
* FAIR/Campagna Abiti Puliti
Lascia un commento