di Marco Boschini*
In ingegneria la resilienza è la capacità di un materiale di resistere a forze impulsive (ovvero, la capacità di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi, e di riprendere la forma originale dopo tale sollecitazione dinamica). In psicologia la resilienza viene vista come la capacità della persona di affrontare le avversità della vita, di superarle e di uscirne addirittura rafforzata e trasformata positivamente. In ecologia la resilienza è la capacità di un ecosistema, inclusi quelli umani come le città, di ripristinare il proprio equilibrio in seguito a un intervento esterno (come quello dell’uomo) che modifi ca l’ambiente e preleva risorse. Se lo sfruttamento eccede questa capacità di rigenerazione, provoca un deficit ecologico.
Nella nostra società essere resilienti significa, in ultima istanza, essere resistenti a un modello di sviluppo che non sta più in piedi, bollito e fallito. I resilienti sono quelli che riusciranno a sopravvivere alla prossima crisi energetica, quando anche l’ultimo barile di petrolio sarà prosciugato e non avremo più di che sfamare un sistema che fabbrica oggetti, produce energia, alimenta le comunicazioni per mezzo di una sostanza sempre più difficile da ottenere (conflitti, costi di estrazione, esaurimento scorte, giacimenti calanti…).
Un resiliente, ad esempio, è un cittadino in grado di autoprodursi gran parte delle cose (beni, prodotti e servizi) di cui ha bisogno per vivere. Curare un orto nel giardino di casa (o sul balcone se non si ha a disposizione un pezzo di terra, o su un pezzo di terra messo a disposizione gratuitamente dall’amministrazione comunale) è un primo antidoto, concreto ed efficace, per smetterla di mangiare frutta e verdura prodotta chissà dove, gonfi a di pesticidi di ogni tipo, dannatamente cara.
Un resiliente, per stare agli esempi concreti, è una persona che sceglie di aver cura della propria salute bandendo tutti quei prodotti per la pulizia della casa e della persona fatti, per l’appunto, di petrolio. Che inquinano noi e le nostre falde acquifere. Che producono montagne di rifiuti (gli imballaggi in plastica). Che costano un patrimonio e che puliscono (e profumano) non molto di più e meglio dei detersivi e detergenti che possiamo autoprodurci con pochi, semplici passaggi.
Un resiliente è una persona che ricomincia a usare le mani coordinandole con il cervello, e si riappropria di gesti, saperi e abitudini che gli consentono di allungare la vita delle cose. Riparandole, quando è possibile, mettendo in gioco la capacità di farlo senza l’ausilio del denaro, in comunità organizzate in cui la ricchezza è il tempo donato, come nel caso delle banche del tempo.
Una comunità resiliente è un gruppo di cittadini e famiglie che provano a scardinare il sistema praticando, concretamente, l’alternativa. Magari con l’ausilio di una moneta locale, meglio ancora se supportati, sostenuti e incentivati da municipi sostenibili, i cui amministratori non siano burocrati privi di una visione alta e altra del futuro, ma donne e uomini al servizio delle comunità locali. Si vedano al riguardo le esperienze dei Comuni virtuosi, o delle Città in transizione.
Oggi, in questo crepuscolo di Impero che perde pezzi ad ogni angolo di strada, chi pratica la resilienza è in montagna a resistere, e sta contribuendo anche involontariamente al momento, che verrà, della liberazione.
Tratto da Nessuno lo farà al posto tuo. Piccolo ideario di resistenza quotidiana, Emi
Su questi temi suggeriamo anche il nuovo libro di Paolo Cacciari, Vie di fuga (Marotta&Cafiero), un saggio splendido su beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita.
Giuseppe dice
Beh io credo che oltre a resistere dalle comunità locali possano nascere nuovi modelli di sviluppo, nuovi modelli di gestione che valorizzino l’economia e le risorse locali. Mi sta molto a cuore il termine Societing, fare società dove l’etica e i beni relazionali vengono prima di tutto. Capire che da soli non si va da nessuna parte e che se uno sta meglio tutti stiamo meglio. Dal basso è questa la sfida che ci attende.