La feroce competizione tra gli stati nell’esportazione delle materie prime, il dominio delle multinazionali e quello degli Stati Uniti, l’inarrestabile e colossale incendio della foresta amazzonica, la fine della distinzione di fatto tra destra e sinistra al potere… Una conversazione di Aldo Zanchetta con Raúl Zibechi (il suo ultimo libro è Mundos otros. Resistencias, autogobiernos, autonomía y espiritualidad, Alter Ediciones) su quanto accade in America Latina, senza gli occhiali della geopolitica. Possiamo riconoscere qualche luce nel buio accesa dai movimenti? “A mio parere, gli zapatisti sono molto consapevoli di dove va il mondo e del ruolo che loro hanno in questo disastro planetario – dice Raúl – Credo che sia ancora il movimento più potente, quello che ha saputo costruire un mondo nuovo e difenderlo…”
Recentemente in Italia si è tenuto un incontro il cui tema era: “Dove sta andando l’America Latina”. Sottinteso: “in questa ridistribuzione totale del potere e delle zone di influenza”. Si può ancora parlare di America Latina come realtà in un certo modo unitaria, oppure i singoli paesi, specie i più importanti, vanno in ordine sparso? Il progetto del Mercosur [Mercato comune dell’America meridionale], che pur con contraddizioni interne vedeva un tentativo di politica comune, è ancora di attualità?
È una domanda molto interessante, perché costringe a pensare. È evidente che ci sono caratteristiche comuni nelle società latinoamericane, ma sempre di più vediamo che le tendenze alla dis-integrazione si fanno più forti, senza che ci sia nemmeno una proposta di unità regionale. Di UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) non si parla più. Il Mercosur è stagnante a causa della sua visione commerciale della realtà, con l’unico obiettivo di accelerare lo scambio di merci.
Ci sono difficoltà strutturali molto gravi. La più decisiva è che sono tutti paesi che esportano materie prime, e questo fa sì che si tratti di economie non complementari, che competono tra loro in un mercato molto concorrenziale. Il caso del Mercosur è l’esempio migliore: si tratta di paesi che esportano soia e carne verso gli stessi mercati. Su questa base materiale, l’integrazione è impossibile, perché dominano gli interessi dell’industria agroalimentare e dei proprietari terrieri che mirano soltanto a pagare poche tasse, a veder crescere il valore del dollaro e a non avere limiti ambientali.
Ci si può chiedere come siamo arrivati a questa situazione. La risposta è che hanno finito per dominare gli interessi delle multinazionali, degli Stati Uniti e dei grandi imprenditori locali in ogni paese. D’altra parte, i progetti di integrazione guidati a suo tempo dal Brasile (UNASUR, CELAC/Comunità di Stati latinoamericani e dei Caraibi) non hanno più il potere necessario, in gran parte perché le forze politiche che li sostenevano in ogni paese (Partito dei Lavoratori [PT], kirchnerismo (corrente politica argentina di sinistra) si sono fortemente indebolite. Lula governa, ma il Partito dei Lavoratori non ha né la maggioranza parlamentare né gli alleati che aveva vent’anni or sono. Le nuove destre radicali rifiutano l’integrazione regionale.
Dal punto di vista politico ha ancora senso parlare di governi di destra o di sinistra, oppure esistono altri criteri per indicare le scelte politiche di fondo nei vari paesi?
Non ha più nessun senso. L’esempio migliore è quello della Bolivia. Al momento c’è una brutale disputa tra il presidente Luis Arce ed Evo Morales. Entrambi usano i movimenti. Evo non accetta di non essere presidente e piuttosto che perdere la possibilità di governare preferisce affondare il MAS/Movimento per il Socialismo (questo sarà il risultato più probabile dell’attuale disastro). In questa lotta non ci sono differenze politiche o programmatiche, Evo non ha mai lasciato governare Arce, che era stato eletto con il suo appoggio, e l’unico motivo è l’aspirazione al potere.
Le sinistre vogliono governare, sapendo che non possono effettuare cambiamenti sostanziali, ma solo cosmetici, di facciata; tuttavia si danno da fare per vincere perché vogliono il potere. Questo presuppone un degrado delle sinistre, perché il potere non è mai stato un obiettivo in sé, ma un mezzo per trasformare il mondo. E poi abbiamo una serie di intellettuali molto mediocri, che si dedicano a giustificare qualsiasi cosa faccia il progressismo, perché la destra sarebbe peggiore.
Il grosso problema è che non ci sono alternative all’interno del sistema politico, e questo genera una grande demoralizzazione dei settori popolari organizzati. L’unico punto su cui sono d’accordo è che è meglio che l’ultradestra non vada al governo, ma questo, come programma, è qualcosa di molto povero, di molto poco stimolante.
Uno dei grandi problemi oggi è rappresentato dalla questione climatica che ha uno dei principali nodi nella regione amazzonica di cui si parla molto in Occidente. In un’ottica latinoamericana, quali sono le prospettive? E quale il futuro dei popoli indigeni in questa regione? Le varie esperienze di autonomia di singoli popoli che prospettive hanno?
L’incendio della foresta è inarrestabile e non c’è modo di fermarlo, perché la forza dell’industria agroalimentare è grandissima, ci sono parlamenti e molti governi che stanno dalla sua parte. Dobbiamo sapere che in Brasile l’incendio è associato a un modo di produzione che riduce al minimo le spese servendosi del fuoco e che non ha nessun problema morale a distruggere il pianeta per guadagnare più denaro. Ora l’intero paese è coperto da una tremenda nuvola di fumo che danneggia la salute, ma i mezzi di comunicazione danno la colpa degli incendi al cambiamento climatico, un elemento astratto e impossibile da definire, e non parlano di chi decide di appiccare il fuoco. Inoltre i roghi si verificano con governi sia di sinistra che di destra. Anche se questi ultimi sono più favorevoli agli incendi, quelli di sinistra non fanno nulla per fermarli, perché ciò implica una vertenza sostanziale con i più ricchi, e non sono disposti a sostenerla.
Le popolazioni indigene sono notevolmente in crescita. Abbiamo sempre più autonomie territoriali, che sono il modo che trovano per frenare l’estrattivismo. Nel nord del Perù ci sono già nove governi territoriali autonomi e tra qualche anno saranno quindici. Sono istituiti da popoli come i Wampis e gli Awajún, che hanno affrontato il massacro di Bagua nel 2009 per mettere un freno all’estrazione petrolifera. Ora questi popoli controllano più di dieci milioni di ettari e l’esperienza si sta diffondendo a macchia d’olio: altri popoli la stanno prendendo in considerazione, sia in Ecuador che nella regione andina peruviana.
In Brasile ci sono decine di processi di demarcazione autonoma dei territori, che coinvolgono 64 popoli in 48 territori diversi, perché i governi non rispettano il mandato costituzionale del 1988 che imponeva di procedere alla demarcazione di tali spazi. Cito questi due esempi perché sono molto poco conosciuti anche in America Latina. Tutto ciò presuppone modalità di autodifesa collettiva, il che significa che esistono forme molto solide di organizzazione comunitaria.
Potrei citare anche ciò che viene realizzato dai Nasa e dai Misak del Cauca colombiano, dai Garifuna dell’Honduras con le loro 48 comunità e la costruzione di una propria università, così come da popoli del Guatemala, del Messico, del Cile, della Bolivia, e potrei dire di tutti i paesi dove ci sono indigeni e neri, ma ora anche contadini che optano per l’autonomia come sta accadendo in Colombia. È chiaro che questi processi sono circondati dalla violenza, dal narcotraffico e dall’estrattivismo, che è la vera causa della violenza. La lotta per la vita affronta enormi difficoltà, ma la vita va avanti e non scomparirà.
I singoli movimenti sociali che sembravano una possibile fonte di cambiamenti radicali, come i Sem Terra in Brasile, sembrano essersi in qualche modo adeguati alle esigenze neoliberiste, con qualche eccezione. Che ne è ad esempio della situazione degli zapatisti o dei Mapuche in Cile? E quali i rapporti in Colombia, dove esiste un governo “progressista” moderato, alle prese con la ricerca di un accordo con uno degli ultimi movimenti armati?
Ogni situazione è diversa. A mio parere, gli zapatisti sono molto consapevoli di dove va il mondo e del ruolo che loro hanno in questo disastro planetario. Credo che sia ancora il movimento più potente, quello che ha saputo costruire un mondo nuovo e difenderlo, con un grande sviluppo dell’educazione, della sanità, della produzione senza agrochimici, dell’amministrazione della giustizia secondo la propria tradizione, di forme di potere ispirate alla rotazione comunitaria.
Il caso dei Mapuche è molto diverso. Hanno recuperato molte terre, centinaia di migliaia di ettari, 500 poderi durante la pandemia, ma la risposta dello Stato è una massiccia militarizzazione e il via libera al narcotraffico che fa molti danni alle comunità. Nonostante tutto, oggi abbiamo più di dieci organizzazioni autonomiste quando vent’anni fa ce n’era una sola, e c’è un importante coinvolgimento dei giovani nella lotta.
Nei tre paesi citati nella domanda che mi è stata fatta, ci sono governi progressisti che fanno la guerra ai popoli indigeni e la conducono nello stesso modo: attraverso il crimine organizzato. Non credo proprio che sia un caso!
Quali sono gli effetti della digitalizzazione sui popoli indigeni nel loro complesso?
È molto difficile avere informazioni dettagliate. Ma posso raccontarvi un’esperienza che ho fatto un anno e mezzo fa. Mi trovavo a Kalipety, un villaggio dei Guaraní Mbya, nel Territorio indigeno Tenondé Porá che conta un totale di 14 villaggi con duemila persone. Ho chiesto se c’era la connessione a internet e mi hanno detto che non ce l’avevano. Non mi sono preoccupato e ho messo da parte il telefono. Ma alla sera, poco prima di andare a dormire, ho visto che tutti prendevano il cellulare e cominciavano a inviare messaggi. “Mi hanno detto che non c’è la connessione a internet”, ho detto un po’ infastidito. “C’è, ma la regoliamo in modo che non abbia un impatto negativo sulla comunità e sui bambini”, mi hanno risposto con un sorriso. Le comunità originarie hanno la capacità di regolare il loro rapporto con il mondo esterno, e la digitalizzazione rientra in questo ambito. Bisogna tenere presente che l’obiettivo principale di un popolo indigeno è quello di continuare ad essere un popolo, di riprodursi come tale. Per questo hanno capito che non possono lasciare le porte aperte alle tecnologie capitaliste. La cosa più interessante, a mio avviso, è la loro capacità di non rifiutare e neanche di accettare in blocco quello che arriva, ma di regolamentarlo, cioè di utilizzarlo, ma in un modo che sia adeguato a loro.
Anni addietro la regione andina era quella in cui si presentavano le maggiori prospettive di profondi cambiamenti sociali. I risultati elettorali di questi ultimi anni presentano una situazione confusa e contraddittoria. Che cosa sta accadendo?
Oggi non si può dire che esista una regione con tali prospettive. Dappertutto c’è una forte crescita della militarizzazione, delle bande armate legate all’estrattivismo, come sta accadendo con l’oro illegale in Perù e in Bolivia, che oggi esporta più valuta di quella derivante dalle droghe. Ma è molto più distruttivo, sia della natura che del tessuto sociale. Invadono i territori con le armi, portano draghe ed estraggono l’oro utilizzando il mercurio che lascia i fiumi inquinati, il che rende molto difficile la continuazione della vita.
Al contrario, direi che un po’ dovunque ci sono iniziative locali molto interessanti, che però non hanno la capacità di mettere un freno alla distruzione operata dal sistema, ma solo di arginarla in alcuni pochi spazi. Vedo inoltre che in luoghi molto lontani compaiono comunità con capacità di autogoverno, come quelle degli amazzonici e dei Garifuna, che vent’anni or sono non avevano raggiunto il livello attuale. Naturalmente questo dà molta speranza, ma non credo che ci permetta di dire che siamo in una situazione favorevole.
Scrittore e giornalista, da sempre accanto ai movimenti popolari latinoamericani, Raúl Zibechi pubblica sul settimanale Brecha (Uruguay), La Jornada e Desinformémonos (Messico), Comune (Italia), Gara (Paesi Baschi). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui.
Aldo Zanchetta e Raúl Zibechi, che fanno parte di Comune da sempre, hanno aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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