Quindici anni di crescita economica sviluppista a due cifre, soltanto poco più di un anno fa il conferimento del Nobel per la pace ad Abiy Ahmed Ali, il più giovane leader di governo dell’Africa, che aveva liberato migliaia di prigionieri politici e posto fine a 20 anni di sanguinoso conflitto (80 mila morti in due anni e poi una interminabile guerra fredda) con l’Eritrea. E poi, dall’autunno scorso, una nuova minaccia di guerra aperta che rischia di provocare il più grave collasso di Stato della storia moderna in una regione cruciale del continente. L’Etiopia, un Paese grande cinque volte la Siria, per estensione e numero di abitanti, è di nuovo in frantumi. Sembra pronta, ancora una volta, ad essere dilaniata da conflitti interetnici e interreligiosi di massa, a ogni forma di estremismo, a un aumento vertiginoso di traffici illeciti e di armi e una potenziale crisi umanitaria, nel punto di incontro tra Africa e Medio Oriente, a un livello di scala superiore a ogni altro conflitto nella regione. Alessandro Triulzi, alla luce di una conoscenza diretta e profonda e di una lunga ricerca cominciata 50 anni fa, racconta le radici di un nuovo esplosivo conflitto armato nel nord che potrebbe incendiare l’intera regione del Corno come e più che in passato. L’ampio articolo che ci ha inviato uscirà sul prossimo numero della rivista gli asini

La guerra che si è accesa nello stato federale del Tigray, nel nord dell’Etiopia, a partire dal mese di novembre 2020, provocando l’esodo di rifugiati nelle regioni di confine e una crisi umanitaria senza sbocchi, rivela il prolungarsi di un conflitto che, se non verrà fermato o disinnescato, rischia di provocare “il più grave collasso di stato della storia moderna” in una regione cruciale del continente africano. La predizione è stata formulata dall’autorevole US Study Group on Peace and Security in the Red Sea Arena con queste parole: “L’Etiopia è grande cinque volte la Siria come estensione e numero di abitanti, il suo collasso rischia di innescare conflitti interetnici e interreligiosi di massa, una vulnerabilità pericolosa aperta a ogni forma di estremismo, l’aumento di traffici illeciti e di armi, e una potenziale crisi umanitaria e di sicurezza nel punto di incontro tra Africa e Medio Oriente a un livello di scala superiore a ogni conflitto nella regione incluso quello yemenita”.
La crisi nel Tigray è dovuta sostanzialmente alla crescente ostilità della componente tigrina del governo federale verso l’operato del Premier Abiy Ahmed. Il leader politico oromo, con un passato militare e nei servizi, era stato nominato dal governo nell’aprile del 2018 per far uscire il paese dallo stato di emergenza dovuto alla forte conflittualità etnica interna. Abiy ha governato il paese inizialmente all’interno di una politica di riconciliazione, premiata con il Nobel per la pace nel 2019, ma poi il suo crescente protagonismo politico (la creazione di un partito pan-etiopico detto della Prosperità, il rinvio delle elezioni che si dovevano tenere l’estate scorsa) ha indispettito la leadership regionale tigrina fin qui dominante, spingendola a indire autonomamente le elezioni regionali vietate dal governo. La risposta di Addis Abeba non si è fatta attendere. Truppe federali corazzate appoggiate dall’aviazione sono state inviate per ristabilire l’ordine nel Tigray ‘ribelle’ e la regione è stata isolata dal resto del paese impedendo ogni intervento politico o umanitario esterno. È l’inizio di una nuova guerra in Africa?
L’Etiopia che ho molto amato e frequentato fino a tempi recenti sembra stia andando in frantumi. Per capire la reale posta in gioco può essere utile riassumere a grandi linee la complessa vicenda etiopica alla luce anche della mia esperienza di ricerca in quel paese. Sono arrivato a Addis Abeba per la prima volta nel settembre del 1970. Era la fine della stagione delle piogge che sull’altopiano etiopico coincide con la nostra estate, tre mesi di piogge torrenziali in un paese in cui le coperture di lamiera ondulata che ricoprivano allora la maggior parte delle abitazioni della città impedivano ogni suono oltre quello assordante della pioggia. Regnava allora l’Imperatore Haile Selassie alla testa di una complessa struttura governativa di tipo feudale moderatamente centralizzata, e fortemente filo-occidentale, che sosteneva la causa degli Stati Uniti e dei suoi alleati. L’Etiopia era il terreno di ricerca per la mia tesi di dottorato.
Per tre anni ho fatto la spola tra Addis Abeba e la regione occidentale del Uollega, ai confini con il Sudan, scoprendo poco a poco un paese in cui la periferia rivelava tutti i contrasti e le durezze del centro. Forti tensioni sociali e culturali hanno scosso il regime imperiale fino alla rivolta prima degli studenti e poi dei militari del Derg, che nel 1974 si è sostituito al dominio patriarcale dell’imperatore. Per diciassette anni il Colonnello Menghistu è stato a capo di un governo autoritario ispirato ai canoni del socialismo reale, ha elevato le etnie a ‘nazionalità’, ha concesso loro il diritto (teorico) alla secessione e ha nazionalizzato la terra in nome del motto Land to the tiller, la terra a chi la coltiva.
Gli scontri ‘etnici’ che si sono moltiplicati negli ultimi due anni sono un tardo riflesso delle riforme sulla terra e sulle nazionalità di quegli anni: lo Stato federale che è emerso nel 1991 dalla lunga lotta contro il Derg socialista è stato non meno autoritario e statalista di quello precedente. Con l’aggravante che ha favorito l’ultra-liberismo e la concessione di terre a investitori stranieri (land-grabbing) per lo sviluppo di enormi infrastrutture estrattive a livello regionale caricando le strategie di sopravvivenza dei gruppi di nuove tensioni marcate da etnicismi rivali in concorrenza con i propri vicini. La crescente disuguaglianza sociale, la corruzione governativa, l’alienazione della terra, unite alla siccità e alle cavallette calate a sud nell’aprile di quest’anno hanno fatto il resto.
Nei molti anni di ricerca passati in Etiopia non sono mai stato oggetto di inimicizia o diffidenza in quanto italiano. Sono sempre stato accolto con grazia e curiosità, come in Etiopia si accolgono gli ospiti stranieri (ferenj) e le loro diversità. Ho ricambiato cercando di immedesimarmi nella cultura locale, il cibo, la musica, i rituali di accoglienza e di cortesia. L’unica eccezione è stata durante la guerra di trenta mesi tra Etiopia e Eritrea del 1998-2000 quando la memoria contro gli ex-colonizzatori si è riaccesa improvvisamente nel clima infuocato della guerra di parole con cui tigrini e eritrei, fratelli in armi, si sono accusati reciprocamente delle responsabilità del passato. Ma il male era stato già fatto. Nel 1995 la nuova Costituzione etiopica risolveva il problema delle nazionalità in concorrenza tra loro adottando la formula del ‘federalismo etnico’ e la divisione del paese in nove, e poi dieci regioni, chiamate Stati, governate in base al principio delle ‘etnie maggioritarie’. Annunciate da ripetute rivendicazioni sulla appartenenza dei gruppi alla loro terra, e sulla loro ingiusta collocazione nel sistema federale, le nazionalità tornano oggi ad essere etnie rivendicative che si fanno apertamente la guerra attraverso milizie armate e scempi sui corpi dei ‘nemici’ vicini.
Dietro ogni conflitto definito ‘etnico’ si nascondono complessi processi storici, politici, culturali. Al di là della cronaca di questi due mesi che occorrerà ricostruire, lo Stato etiopico sembra tornato al punto iniziale di partenza: come tenere in piedi il vasto e popoloso Stato multietnico ereditato dalla tradizione imperiale, il più grande, antico e riottoso stato dell’Africa orientale (110 milioni di abitanti) e come assicurare una governance equilibrata di poteri tra lo Stato e le sue componenti regionali. L’Impero costruito da Menelik alla fine del diciannovesimo secolo è durato fino al colpo di stato del 1974, anno in cui l’imperatore Hailè Selassiè viene portato via dai militari ribelli nel sedile posteriore di un vecchio maggiolino Volkswagen a due porte: la tensione tra poteri centrali e autorità regionali ha costituito da sempre il fulcro del difficile equilibrio tra le forze politiche in campo. La centralizzazione del paese, favorita paradossalmente dalla breve e rovinosa occupazione italiana del 1936-41, è stata lungamente perseguita sia dal governo imperiale che dal Derg socialista. Quest’ultimo ha solo cambiato il segno politico ma non l‘ impianto centralista del dominio di Addis Abeba sui suoi ‘sudditi’, prima ‘fidelizzati’ attraverso la Chiesa e la sacralità della figura dell’Imperatore, poi costretti a chiamarsi ‘compagni’ (guad) e farsi difensori del socialismo reale appoggiato da Mosca.

La grande rivolta contro il governo centrale iniziata a metà anni Settanta con la nascita dei fronti di liberazione creati su base etnica (OLF, TPLF) sul modello del Fronte popolare di liberazione eritreo (EPLF), si concludeva nel 1991 con la caduta rovinosa del Derg e l’inizio della nuova era del nunca mas – mai più il governo centrale dovrà tiranneggiare una regione o un popolo della federazione – dando il via a una lunga transizione durata un quarto di secolo in cui la coalizione governativa capeggiata dalla componente tigrina (EPRDF) – numericamente il 6% della popolazione etiopica – siglava il nuovo patto federale basato sul volere e il consenso delle etnie dominanti messe a capo di governi regionali, in realtà multietnici, fatalmente sottoposti ai voleri politici di Addis Abeba.
Il recente invio delle truppe federali contro la capitale del Tigray, Mekelle, e la resistenza contro il governo centrale da parte della élite dissidente tigrina a capo della regione che ha maggiormente beneficiato delle risorse dello Stato, rappresenta la sconfitta di un progetto politico, e di una generazione. Si conclude così in malo modo la transizione democratica verso forme più mature di ‘federalismo etnico’ riproponendo alla nazione in fiamme il dilemma di sempre: tra coloro che vogliono conservare l’esperienza politica del più antico stato africano che ha seguito la centralizzazione come chiave portante della sua modernizzazione, e coloro che continuano a optare per la soluzione federale e decentrata di poteri e risorse come unica strada possibile di fronte alla continua pressione dello Stato centrale.
La questione non riguarda solo l’Etiopia ma coinvolge i suoi diretti vicini e il sistema di alleanze e di posizionamenti politici ed economici che si vanno costituendo lungo il Mar Rosso dopo il ritiro degli Stati Uniti dalla regione e l’affidamento dei suoi interessi militari e strategici agli alleati arabi. Non è un mistero che la nuova ‘pace’ tra Etiopia e Eritrea – siglata a Jeddah – sia stata guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati che hanno vincolato i loro aiuti finanziari alla pacificazione tra i governi di Asmara e Addis Abeba e il loro diretto coinvolgimento nell’annoso conflitto dello Yemen e nel sistema di alleanze filo-arabe stipulate nella regione. Le conseguenze che tutto questo avrà sul sistema di alleanze internazionali, sui rapporti finora pacifici tra musulmani e cristiani in Etiopia, e più in generale sulla spartizione delle risorse (prime tra tutte l’acqua, la terra, l’energia elettrica e le comunicazioni) tra paesi ricchi e poveri della regione del Mar Rosso sono tutte da vedere.
Quale Etiopia nascerà da questo conflitto tra poteri concorrenti nessuno può dire. Ma qualcosa si è rotto all’interno della Federazione che ha guidato l’Etiopia del dopo Menghistu. Troppi conflitti hanno messo in discussione la solidità del patto federale alla morte del suo ideatore, il tigrino Melles Zenawi. L’ arrivo al potere di Abiy ha fatto brevemente sperare che l’Etiopia fosse uscita dalla crisi di identità iniziata nel 1998 con la furibonda e mortifera guerra di confine con l’Eritrea. Così non è stato, e la conflittualità tra le diverse componenti dell’ex-impero etiopico si rivolge oggi contro la regione del Tigray la cui élite politica, che aveva retto le sorti della Federazione fin dalla caduta di Menghistu nel 1991, ha cercato di sottrarsi al dominio di Abiy indicendo autonomamente le elezioni regionali contro i voleri di Addis Abeba e rifiutando di sottoscrivere la nuova coalizione pan-etiopica del Partito della Prosperità proposto dal Premier intorno al motto salvifico del medemer (‘sinergia’ in amarico).

I fatti sono poco chiari come le interpretazioni che se ne danno. Non ci sono sul terreno reporter indipendenti, e il blocco da due mesi delle comunicazioni con il Tigray ha reso vano ogni appello delle organizzazioni umanitarie. Si sa soltanto che circa 50.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case e a trovare rifugio nel vicino Sudan, che i quattro campi del Tigray che finora hanno ospitato ca. 100.000 rifugiati in fuga dall’Eritrea sono a rischio in virtù della nuova alleanza tra Asmara e Addis Abeba, e che l’intera regione del nord – che era stata il cuore della resistenza a Menghistu – si trova oggi in una situazione di assedio e di potenziale resistenza armata e di opposizione al governo centrale. Visto il livello di militarizzazione nella regione confinante con l’Eritrea, il conflitto rischia di far saltare non solo i delicati equilibri tra Addis Abeba e Mekelle ma l’intera regione del Grande Corno (Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somalia, Sudan). Il silenzio e l’inoperatività degli organismi internazionali (Nazioni Unite e Unione Europea in testa) rendono la crisi del Corno d’Africa un test dei complessi intrecci e della competizione in corso tra crisi politica, crisi umanitaria e crisi sanitaria in molte parti del mondo.
Non c’è dubbio che l’invio di truppe federali è andato ben oltre il ristabilimento dell’ordine nel nord del paese. Ha però riaperto, con la forza delle armi, il dibattito sulla sostenibilità di uno stato federale basato sul governo delle sue principali componenti etniche. Resta da capire se quest’ultimo principio, difeso con forza dalla elite tigrina, sia compatibile con il partito del Premier detto ‘della Prosperità’ il cui principio base non è più il decentramento etnico ma il ritorno al mito ‘sinergico’ della nazione etiopica e il rilancio unitario e post-etnico dello Stato. Dove andrà l’Etiopia?
Questo articolo comparirà sul n.84 de gli asini per la quale è stato scritto. L’autore lo ha gentilemente inviato anche a Comune-info, che lo ringrazia
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