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Domani notte riproverò il game

Baobab Experience
20 Gennaio 2020

“C’è un fuoco leggero a scaldare la pentola per la cena, nell’ultimo piano dello squat affacciato sul fiume Una: un edificio pericolante a pochi passi dal centro di Bihać…”. È un racconto ricco di rabbia ed empatia quello che un gruppo di Baobab Experience ha scritto dopo la missione umanitaria in Bosnia, tra i numerosi rifugi precari della rotta balcanica. Qui trovano riparo migliaia di migranti fuoriusciti o mai entrati nel circuito dei campi gestiti dall’OIM. Il loro obiettivo? Il game: tentare di oltrepassare i confini con la Croazia e raggiungere l’Europa dove esercitare il proprio diritto all’esistenza

“Qual è la cosa della quale hai più bisogno?”. “Che la mia storia sia raccontata, che io non sia dimenticato, che non venga ignorato quel che accade qui”. C’è un fuoco leggero a scaldare la pentola per la cena, nell’ultimo piano dello squat affacciato sul fiume Una: un edificio pericolante a pochi passi dal centro di Bihać, nelle cui voragini e cedimenti sono state già perse troppe vite umane.

È solo uno dei tanti rifugi precari, dislocati nella regione di Una-Sana in Bosnia, dove trovano riparo i migliaia di migranti fuoriusciti o mai entrati nel circuito formale dei campi gestiti dall’OIM. Giovani uomini e bambini che dormono nel calore della plastica bruciata, in un’aria irrespirabile che fa lacrimare gli occhi e bruciare la gola. Qui manca tutto, il cibo è poco, le medicine scarseggiano, le condizioni igieniche sono pessime, gli indumenti usurati dal tempo. Eppure, ci sorridono quando ci vedono; non chiedono nulla che non sia attenzione e pazienza di ascoltare. Ci accolgono nei loro giacigli, con un bisogno spasmodico di raccontarsi, di testimoniare le angherie del viaggio, la miseria dei fallimenti e la violenza dei respingimenti: è “the game“, il gioco a perdere, il gioco che non ha nulla di divertente, il tentativo disperato di oltrepassare i confini con la Croazia e raggiungere l’Europa dove esercitare il proprio diritto all’esistenza. Il sogno europeo.

Mi chiamo Hamid, vengo dal Pakistan, ho quindici anni e domani notte riproverò a varcare il confine: è il mio decimo tentativo. Le vedi queste ferite? Ne porto una per ogni fallimento.

Mi chiamo Mohamed, sono nato in Egitto, ho provato il game cinque volte e altrettante sono stato respinto. La polizia croata mi ha tolto tutto: soldi, scarpe, telefono, dignità.

Sono Ahmet, siriano. Sono bloccato qui da alcuni mesi. Mi hanno spezzato la caviglia e costretto a ridiscendere le montagne a piedi nudi. Aspetto di tornare a camminare. Aspetto il disgelo della primavera per ritentare la sorte.

Sono Abdel. Vengo dal Bangladesh. Al mio dodicesimo tentativo ero riuscito ad arrivare a pochi chilometri da Trieste, ma sono stato catturato e riconsegnato alla polizia croata. Mi hanno preso tutto: soldi e anima. La mia famiglia non mi invia più denaro: non mi crede più; non crede a quello che avviene qui. Pensa che io stia mentendo.

Mi chiamo Kalam. Ho venti anni. Vengo dal Marocco e vorrei raggiungere mio fratello in Francia, ma a ogni tentativo vengo respinto. La notte ci sono i rastrellamenti della polizia bosniaca: ci dicono che dobbiamo andare al campo, ma al campo ci dicono che non c’è posto e di tornare qui. Aiutami ad andare via: mi tengono bloccato, sono in trappola.

Mi chiamo Amid e sono afghano: di etnia hazara, non pashtun, ho ventiquattro anni. Mi fai una foto con la tua macchina fotografica? Però riprendi solo il volto, non inquadrare quello che c’è intorno: mia madre sa che dormo in un hotel; le ho detto che vengo trattato come un signore. Non deve vedermi in queste condizioni.

Il fuoco continua a scoppiettare, mentre le storie di vita si sovrappongono. I ragazzi ci offrono di condividere la loro cena, ma la gola è stretta. Non si respira. Lo stomaco è contratto di tutto l’orrore. L’incubo europeo.

Dal 4 al 11 gennaio un gruppo di attivisti ed attiviste di Baobab Experience si è recato in missione umanitaria in Bosnia Erzegovina. La missione ha consentito di costruire una rete interna con gli attivisti locali, impegnati sul territorio nel dare supporto e conforto ai migranti bloccati nel limbo giuridico bosniaco. Grazie a un finanziamento di Help Refugees, sono stati effettuati acquisti di beni di prima di necessità, per dare ossigeno ai free shop e ai magazzini dei volontari locali di Bihac, Tuzla e Sarajevo.

Attivisti e i solidali locali, che individualmente o in piccoli gruppi prestano aiuto ai migranti, sono soggetti a una sistematica intimidazione e a una crescente repressione. Gli stessi volontari internazionali sono spesso costretti ad operare in semiclandestinità per evitare fogli di via e altri soprusi della polizia locale.

Tra Bihać e Velika Kladusa, ai confini con la Croazia, gravitano circa otto mila migranti, di cui circa la metà al di fuori dai Centri gestiti dall’OIM. Chi non è registrato nei campi formali non può avere accesso ai servizi di prima accoglienza, alla già pressoché inesistente assistenza medico-sanitaria e ai pasti. Oltre ai centri per famiglie di Sedra e Borici, i minori non accompagnati rappresentano il 40 per cento degli ospiti del centro di Bira, dedicato agli uomini adulti. I minori non accompagnati rappresentano un fenomeno in continuo aumento, con una presa in carico parziale che li espone ad abusi e violenze.

L’Europa continua a chiudere un occhio e a strizzare l’altro rispetto alle azioni illegali di respingimento collettivo e alle violenze sistematiche perpetrate ai suoi confini orientali: un’Europa barricata dietro la “protezione”, tanto ridicola quanto disumana, delle proprie frontiere esterne.

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Alice Basiglini, Valerio Bevacqua, Andrea Costa, Ludovica Di Paolo Antonio, Francesca Furno, Giulia Rompel, Simone Santi per Baobab experience

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