Se il vero interesse, al centro del dibattito che si è acceso intorno alla Gpa (“gestazione per altri”), non fosse la strenua difesa della famiglia “naturale” – un padre, una madre, possibilmente di “stirpe italica” -, non si capirebbe perché, nonostante i ripetuti richiami della Corte Costituzionale, è mancata finora in Italia una legge sulla genitorialità omosessuale.
Scriveva giorni fa su Repubblica (21 marzo 2023) Michele Ainis: “Nel silenzio della legge, parte la giostra dei supplenti – il sindaco, il prefetto, il giudice (…) Sicché la decisione sulle regole cambia padrone: dal potere legislativo a quello esecutivo, amministrativo, giudiziario”. Come tutte le questioni definite “etiche”, dal ddl Zan sull’omofobia, alla legge sul fine vita, c’è un modo per evitare di riconoscerne la politicità, ed è lasciarle all’“inerzia legislativa”, o sviarne il corso in modo pretestuoso. È quello che sta succedendo a seguito del rifiuto della Commissione Politiche europee del Senato di approvare la proposta della Ue di un “certificato europeo di filiazione” in base al quale, se i figli di una coppia LGBTQUI+ sono riconosciuti come tali da uno dei sette membri dell’Ue, il riconoscimento si estenderebbe necessariamente a tutti gli altri Stati. Le conseguenze, cariche di effetti devastanti materiali e psicologici su figli già nati, non hanno tardato a comparire, così come le giuste proteste di piazza. Basta per tutte la grande partecipatissima manifestazione in Piazza Scala a Milano, sabato 18 marzo e la decisione di Beppe Sala e altri sindaci di continuare nella loro battaglia per la trascrizione delle nascite avvenute in Italia e dei certificati ottenuti all’estero per i genitori che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri o maternità surrogata.
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Altrettanto rapido è stato il passaggio da parte del governo in carica dallo stop a riconoscimenti di filiazione già in atto a una campagna senza precedenti sulla Gpa, che oltretutto, come è stato da più parti fatto notare, interessa per la maggior parte coppie eterossessuali ed è riconosciuta da una quantità di Stati in Europa e nel mondo.
Può far piacere, per un certo verso, che si riconosca alla “gestazione per altri” e più in generale alla maternità un rilievo politico, che se ne discuta pubblicamente. Quello che dovrebbe inquietare non è tanto la divergenza delle opinioni, che su questo tema vedono diviso anche il femminismo, ma l’uso che il governo in carica ne sta facendo, nella speranza di far approvare una proposta di legge di Giorgia Melloni dell’aprile 2002, poi riproposta da Mara Carfagna nel febbraio 2023: la trasformazione del divieto, vigente ora in Italia della Gpa, in “reato universale”, ben sapendo che nessuno Stato lo firmerà per condotte da loro autorizzate.
Più interessante delle manovre di un governo i cui “valori” tentano nostalgicamente di fermare un cambiamento evidente delle coscienze e di ciò che è stata considerata finora la “normalità”, o il portato della “natura”, sono le argomentazioni che fanno riferimento alla maternità, in quanto destino femminile, costruzione dell’ideologia patriarcale, e il modo con cui si dà oggi nella vita delle singole donne. Che la gravidanza e il parto siano esperienze diverse dalla maternità dovrebbe essere una consapevolezza acquisita, così come il fatto che un bambino, una volta nato possa essere allevato, curato, educato da adulti diversi dai genitori biologici. Sappiamo che purtroppo non è così, e che il determinismo, che ha fatto della capacità del corpo femminile di generare l’identità e il ruolo “naturale” della donna, sopravvive in forme diverse e inaspettate anche in considerazioni che ne sembrano lontane.
Sesso e genere, dato biologico e costruzione storica del materno, è ancora un annodamento difficile da riconoscere e la spinta a semplificare va di pari passo con la difficoltà di prendere atto di quanto questa visione del mondo sia stata incorporata anche dalle donne. Se la vittima parla la stessa lingua dell’aggressore, se sono le donne stesse a farsi “oggetto” e “merce” per chi le domina e le sfrutta, allora è importante che nella critica della violenza sessista si eviti di riprodurre la stessa alienazione. È quello che io vedo tornare, consapevolmente o meno, nella stigmatizzazione della Gpa anche quando sono dichiaratamente le donne a sceglierla. Per dono o per denaro, la gravidanza per altri non può essere equiparata a una “tratta”, a una “schiavitù”, e quando ha questi tratti sappiamo che è già perseguita per legge e non c’è bisogno di ulteriori criminalizzazioni. L’alienazione che le donne hanno fatto e continuano a fare del loro corpo non si combatte a furor di condanne, ma ascoltando e dando voce ai loro vissuti, facendo del racconto delle esperienze il primo passo necessario per la liberazione da modelli imposti e purtroppo forzatamente fatti propri.
Dietro l’alibi di voler combattere logiche di mercato e di asservimento neoliberista, che per altri versi vengono ‘normalmente’ accettate, non è difficile cogliere la difficoltà a vedere nelle donne una volontà di scelta che ne fa comunque dei “soggetti”. Si tratta di comportamenti che possono non piacerci, che vanno talvolta a loro danno, dettati spesso dalla sopravvivenza e quindi lontani da quella “libertà” e autonomia profonda per cui continuano a battersi le pratiche del femminismo. Se la maternità, idealizzata o lasciata al determinismo biologico, non fosse ancora così poco indagata e raccontata nei suoi aspetti “impresentabili” dalle donne stesse, forse anche i giudizi sulla Gpa sarebbero più cauti e quella che viene chiamata “servitù volontaria”, descritta in modo da lasciare aperta una prospettiva più rassicurante. Scrive Roberto Ciccarelli nel suo libro Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista, Derive Approdi 2022: “Il rapporto di capitale non può essere spiegato solo nei termini di una mercificazione. Il suo aspetto interessante invece è un altro: il capitale esiste perché riscuote un consenso. È in virtù di questo consenso che agli sfruttati e agli oppressi è riconosciuta la possibilità di decidere in base al proprio diritto, scegliendo volontariamente di eseguire i comandi del dominus in cambio di una sicurezza (…) Prima di contrapporsi ai padroni gli schiavi devono capire la ragione per cui desiderano servirli”. È stata questa per me la grande, preziosa lezione del femminismo degli anni Settanta.
Pubblicato il Il Riformista (e qui con l’autorizzazione dell’autrice). Nell’archivio di Comune, gli articoli di Lea Melandri sono leggibili qui.
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