L’ideologia del lavoro, nata solamente con l’avvento della Rivoluzione Industriale ed esplosa negli ultimissimi decenni fino a diventare sinonimo di “successo” nella vita, dimostra pienamente i suoi limiti. Rimetterla in discussione seriamente è il primo ineludibile passo per provare a liberarsene
di Andrea Bizzocchi*
Mi rendo ben conto che nel meccanismo del lavoro siamo incastrati ma fino a che non ci convinceremo davvero, fino in fondo, che noi non viviamo grazie al lavoro (e per estensione all’economia) ma nonostante il lavoro, non ci schioderemo mai dalla situazione in cui ci troviamo. Semplifichiamo per intenderci. Il lavoro modernamente inteso nasce solo con l’avvento della “Rivoluzione industriale” e trova la sua esaltazione nel liberismo-capitalismo e nel marxismo, cioè le due correnti che nei fatti proprio dalla “Rivoluzione Industriale” prendono piede. Come è andata a finire, in entrambi i casi, è sotto gli occhi di tutti. Il lavoro, occorre dirlo, esprime anzitutto una logica di dominio, sulla Natura e su quegli umani che trasformando la Natura in merci creano il cosiddetto plusvalore. Ovviamente sono tutte stronzate che di per sé non esistono, ma noi ci crediamo e dunque ci sembrano vere, reali, financo logiche e magari pure “positive”. Insomma, dal momento in cui ci crediamo davvero, è proprio lì che trasformiamo tutte queste stronzate in realtà. Per questo dico che dobbiamo davvero convincerci che noi non viviamo grazie al lavoro (e per estensione all’economia) ma nonostante questo.
Il lavoro prima, riassumendo in pochi concetti basilari un percorso di migliaia e milioni di anni di storia umana sul pianeta, semplicemente non esisteva. Bisogna dunque intendersi su cosa significhi veramente lavorare. Un conto è fare cose che ci servono a vivere ed un altro paio di maniche è correre come forsennati per comprare cose, pagare tasse e via dicendo. Se ciò è chiaro, la questione fondamentale diventa che prima si “lavorava per vivere” mentre oggi “si vive per lavorare”. In altre parole oggi si lavora per avere di più, per coprirsi di status symbols, per avere successo, ecc. Grazie (si fa per dire) al lavoro abbiamo sostituito l’avere all’essere. E questo è un fondamentale motivo per cui nel mondo moderno si sta male: perché l’avere non è, né potrà mai esserlo, un riempitivo e men che meno un sostitutivo dell’essere.
Ma il fatto paradossale della modernità, che è ciò che mi scandalizza e mi fa stare male, non è tanto che si lavori – capisco bene che ci sono situazioni in cui si è “costretti” a farlo -, ma il fatto che si voglia lavorare, che si adori il lavoro, che gli si voglia bene, il che significa non aver capito che stiamo volendo bene alla nostra schiavitù. Ma al peggio non c’è mai fine e la cosa peggiore di tutte è addirittura che si consideri il lavoro, questo assassino della Vita, qualcosa di “nobile” (“il lavoro nobilita l’uomo”). Non diciamo cazzate. Il lavoro abbruttisce l’uomo e soprattutto lo rincoglionisce; lo rincoglionisce così tanto che l’uomo moderno, stressato, angosciato, depresso, ossessionato dal lavoro, non sa neppure più cos’è la Vita e cos’è vivere. Noi non viviamo, siamo immersi in una bolla artificiale di pseudovita di cui i social network, tanto per dirne una, rappresentano bene l’essenza. Se invece ci fosse rimasto del sale in zucca ce ne staremmo a fare nulla o perlomeno lavoreremmo il meno possibile perché tutto il tempo che sottraiamo al lavoro è Vita (senza contare che così facendo consumeremmo meno, produrremmo meno, inquineremmo meno, sfrutteremmo e devasteremmo meno, avremmo più tempo per la famiglia, i figli, gli amici ecc.).
Qualcuno però ci ha convinto che il lavoro (e l’economia), ci hanno reso liberi. Anche qui, non diciamo cazzate; dovrebbe essere chiaro il fatto che in una società mercificata l’unica libertà possibile è quella di comprare, ovverossia di scegliere tra dieci diversi tipi di dentifrici. E comunque, visto che nel nostro mondo si fa un gran parlare di “attività di evasione”, “spettacoli di evasione” e chipiùnehapiùnemettadievasione, bisognerà pur domandarsi da cosa dobbiamo evadere? Evade solo chi è in prigione, non chi è libero. Altro che libertà.
Lao-Tzu disse chiaro che “senza fare nulla non c’è nulla che non venga fatto”. Il senso è evidente: se non ci agitiamo come forsennati la Vita (non la mia, la tua o quella di quell’altro, ma la Vita con la maiuscola) va avanti lo stesso e anche meglio.
Resta il fatto che nel nostro mondo il dogma del lavoro è sacro, non lo si può toccare. Figuriamoci, lo abbiamo anche messo a fondamento della nostra Costituzione. È anche ovvio che non lo si possa toccare. Perché se lo facessimo l’intero sistema crollerebbe in un amen. Se qualcuno però si preoccupa che “se nessuno fa nulla la società non andrebbe avanti” (magari abbiamo bisogno di tutto tranne che di andare avanti), va qui spiegato che rifiutare l’ideologia del lavoro non significa rifiutare il lavoro tout court, ma semplicemente cercare di affrancarsene. Il rifiuto non è del lavoro in sé ovviamente bensì dell’ideologia che questo rappresenta; e cioè lo sfruttamento, la devastazione, inquinamento (ambientale e sociale) che necessariamente comporta, nonché la schiavitù di chi lo fa e di chi lo subisce. È anche, ovviamente, il rifiuto di un’economia assassina che sul lavoro (devastazione e schiavitù) prospera. Il rifiuto del lavoro rappresenta insomma un tentativo legittimo e naturale (cioè che asseconda la nostra natura di esseri viventi e liberi) di riappropriarci della nostra vita e della nostra libertà. Per questo il rifiuto del lavoro è sempre attivo e mai passivo.
In ogni caso, e lo scrivo con tutta serietà e a mo’ di invito ad una riflessione profonda, gli unici con del sale in zucca sono quei pochissimi popoli della natura rimasti (gli altri li abbiamo fatti fuori tutti) che sono gli unici che non lavorano. A partire dal “Saggio sul dono” di Marcel Mauss, passando per “L’economia dell’età della pietra” di Marshall Shalins, per arrivare a Claude Levi-Strauss, Karl Polanyi e tanti altri, possiamo affermare con certezza che i “primitivi” vivevano nell’abbondanza, occupandosi del loro sostentamento in non più di due-tre ore al giorno, occupazione che era parte del vivere esattamente come il leone si occupa di vivere quando corre dietro alla gazzella (e difatti il leone, così come il “primitivo”, non è stressato mentre noi sì). Insomma, il “primitivo” non lavora. Vive.
Faremo fatica a tornare “primitivi” ma ciò non toglie che è sicuramente più sensato ricominciare a guardare indietro piuttosto che continuare ad andare avanti con gli occhi bendati come stiamo facendo. E comunque il primo passo per liberarci della schiavitù del lavoro è convincersi che questo non è altro che una forma di schiavitù e neppure ben mascherata. Bisogna insomma smettere di ringraziarlo, perché, lo ripeto ancora, noi non viviamo grazie al lavoro ma nonostante questo. Male che vada smettere di ringraziarlo significherà smetterla di farci prendere per il culo. Che è già qualcosa.
*Andrea Bizzocchi è nato a Fano. Ha scritto di molti temi, tra cui energia, decrescita, truffe bancarie, viaggi. Ha pubblicato, tra gli altri, Ritorno al Passato (Edizioni della decrescita felice), Pura Vida e Non prendeteci per il Pil! (Terra Nuova Edizioni) e la trilogia Pecore da tosare, E io non pago e Euroballe (Edizioni Il Punto d’Incontro). Vive con poco e in maniera nomadica tra Italia, Stati Uniti e Centroamerica. Il suo sito è andreabizzocchi.it
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Buon lavoro Paolo Cacciari
Lessico psicopatologico: occupabilità
Dalla precarietà alla convivialità Gustavo Esteva e Irene Ragazzini
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Il non-lavoro è un modo di fare la rivoluzione? No, di viverla Philippe Godard
Smettiamola di preoccuparci del lavoro Francesco Gesualdi
La crescita è nemica della vita Vandana Shiva
Usciamo dalla società del lavoro Marco Deriu
Moris Fabbri dice
Un chiaro lucido commento sulla miseria umana; non vedo alcuna strada per contraddirlo.
Nina | Leaving the Old Way dice
Non posso che condividere in pieno tutto quello che hai scritto, e sono contenta che ci sia qualcun altro a condividere questi pensieri.
Io e il mio compagno abbiamo mollato il lavoro a dicembre proprio perché non condividevamo più questo modo di pensare e di essere…cosa faremo ancora non lo sappiamo, ma abbiamo deciso di abbandonare il vecchio modo di vivere.
Mi piacerebbe se ci seguissi, visto che abbiamo lo stesso modo di pensare…
Grazie e buona vita!
Ps se vuoi dare un paio di letture anche ai nostri pensieri al riguardo, li trovi qui:
http://leavingtheoldway.com/pre-partenza/mollo-tutto-pensieri/bene-piu-prezioso-tempo/
http://leavingtheoldway.com/pre-partenza/mollo-tutto-pensieri/un-altro-mondo/
Sidi dice
Sono d’accordo. Io non lavoro, però sono attivo. Sto con la natura. Vivere il tempo, cioè il presente, è la cosa più bella del mondo. Semplificare la vita: ridurre al minimo i bisogni: diventare pieni di consapevolezza interiore. Ecco cosa ci vuole nella vita.
Adele dice
Ciao, concordo con tutto, è ciò che penso anche io già da diversi anni e mi rincuoro ogni volta che leggo cose simili sapere che non sono l’unica. Vorrei chiederti tu cosa proporresti come primi passi per vivere in modo libero da queste catene? Ne hai già un’idea?
Patrizia Fausti dice
Non sono d’accordo. Non penso che sia il lavoro ad avere abbrutito e reso privo di senso il modello di società consumistica. È vero che dovrebbe essere fatto nel rispetto dei diritti di chi lavora e dovrebbe essere organizzato in modo da rendere più vivibile la vita. Ma non riesco proprio a considerare la mancanza di un’ occupazione, di un’attività lavorativa come qualcosa di positivo per chi come me vive in questa società.
Luca dice
Cara Patrizia, partiamo dall’assunto che il lavoro, inteso come lo intendiamo noi, è un furto. Tu lavori 100 e vieni pagata 30 (se va bene) perché 70 se lo prendono i padroni e lo stato, in cambio di servizi (scadenti). Continuiamo con un altro assunto e cioè che il lavoro così come lo conosciamo noi è destinato a scomparire, il 90% dei lavori che oggi facciamo verranno fatti da macchine ed è impensabile che 10miliardi di esseri umani siano tutti economisti o ingegneri o “artisti”. Quindi bisogna pensare ad una società senza lavoro perché noi non la vedremo ma fra qualche secolo (forse meno) sarà così. Quello che noi possiamo fare oggi è affrancarci dalla schiavitù del consumismo, se possiamo dobbiamo scegliere di lavorare meno, guadagnare meno e spendere meno. A cosa serve accumulare ricchezze, Comprare case, Gadget tecnologici se poi ciò che resta dello stipendio dobbiamo spenderlo in antidepressivi o medicinali contro patologie legate allo stress?L’articolo è sicuramente molto provocatorio ed esagerato ma sono d’accordo sul fatto che bisogna uscire dall’ottica del “lavoro nobilita l’uomo”. Lo studio nobilita l’uomo, l’arte nobilita l’uomo, la solidarietà nobilità l’uomo, l’amore nobilita l’uomo,la meditazione nobilita l’uomo……non il lavoro.
Luca dice
Sono parzialmente d’accordo. Chi declama verità assolute ha la pancia abbastanza piena per farlo. Chi vive da proletario, schiavo del sistema capitalistico ed ha bisogno di un reddito per vivere (non ci sono mamma e papà che pagano) non può tanto facilmente lasciarsi andare a ragionamenti di questo tipo. Bisognerebbe iniziare una rivoluzione culturale che spinga a lavorare meno, a ridistribuire la ricchezza, a contare di più sulla solidarietà e di meno sul mercato ma questo implica tante rinunce e non so quanta gente è disposta a rinunciare a tante cose. Io non ho una macchina, non ho una casa (sono in affitto) e il mio salario mi serbe semplicemente per vivere. Ho chiesto volontariamente di passare da un full-time ad un part-time da 1600euro a 1100euro al mese, con questo salario io vivo ma non costruisco niente per il futuro e non posso permettermi surplus (smartphone ultima generazione o cose del genere). Quanti di voi già lo fanno? Quanti di voi sono serimante disposti a fare un piccolo passo del genere? Non serve tornare all’età della pietra, basta semplicemente iniziare ad alzare il piede dall’acceleratore e iniziare a frenare dolcemente.