Le cifre che riguardano la pandemia possono essere lette e interpretate in molti modi e o possono anche essere distorte o manipolate facilmente, lo sappiamo. Quelle ufficiali che riguardano il Messico, da dove scrive Gustavo Esteva, sono comunque tra le peggiori: oltre 75 mila morti, più del doppio dell’Italia e 715 mila contagiati. Mentre il conteggio mondiale dei morti si avvicina al milione, durante una riunione del Consiglio di sicurezza, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha detto che la pandemia è “fuori controllo“. Poi, mentre Usa, Cina e Russia si guardavano in cagnesco, ha aggiunto che le cause vanno ricercate “nella mancanza di preparazione, di cooperazione, di unità e solidarietà mondiale”, se si affronterà con uguale “disordine e divisioni la crisi climatica, c’è da temere il peggio”. Si tratta di responsabilità gravi ed enormi, difficilmente imputabili alla scarsa disciplina delle persone comuni. I giornali italiani non ne parlano molto, preferiscono titolare sulle lodi dell’Oms all’Italia, ma se c’è una cosa che dovrebbe aver insegnato il virus che all’inizio era “cinese” (ora lo dice solo Trump) è che bisogna guardare il mondo. Per questo è così importante il ragionamento sulla paura che qui fa Esteva, un intellettuale (“de-professionalizzato”, come si definisce lui) che, con gli zapatisti, sostiene che la IV guerra mondiale, quella contro tutti i poveri e quelli che vivono “in basso”, è già cominciata. La paura, spiega Gustavo, è un’arma. Dobbiamo sapere che i governi ne hanno molta e col panico possono diventare ancor più pericolosi. La paura, però, viene usata soprattutto contro di noi, anche per nascondere un collasso (economico, ma non solo) che è assai precedente all’esplosione del virus. Invece della paura, arma di un mondo che va in rovina e che ci spinge alla guerra, non ci resta che rafforzare le precauzioni, l’autonomia e la speranza

La paura ha sempre fatto parte degli arsenali bellici. È stata da tempo immemorabile un’arma molto efficace, che può essere perfino letale. L’attuale paura dei governi non è nata per caso. Si formò allorché le manifestazioni più gravi e evidenti del collasso climatico e sociopolitico generarono in loro una ben fondata sensazione di inadeguatezza: scoprirono che non sapevano come affrontarlo e che non potevano né volevano fare quanto era necessario; si trovavano senza funzioni. La loro paura crebbe di fronte alle mobilitazioni popolari incontenibili e creative, spesso causate da questa incapacità, sempre più evidente per tutte e per tutti.
Dobbiamo continuare a essere causa di questa paura, a ripetere sempre più spesso che sappiamo che essi non sanno e non possono. Però dobbiamo farlo consapevoli dei limiti e dei rischi di questa arma potente: poche cose sono così pericolose come un governo in preda al panico.
La paura viene usata anche contro di noi. È una delle armi principali delle élite del mondo intero, che hanno imparato a usare il covid-19 come alibi per nascondere la vera natura del collasso in cui ci troviamo e che esse hanno contribuito a creare. Inoltre hanno scoperto che potevano usare la paura per suscitare un’obbedienza senza precedenti in tutta la popolazione, per sottoporla al controllo. E lo hanno realizzato.
Delle poche cose che sappiamo con sufficiente certezza su questa esperienza mondiale una è che la condizione psicologica ed emotiva influisce decisamente sulla capacità di resistenza di fronte al virus. Nulla di peggio che l’angoscia, la depressione, la disperazione. Non solo debilita le difese immunitarie di chiunque, ma può anche creare le condizioni che in certi casi causano la morte.
Per questo la paura che hanno generato è così irresponsabile e criminale. L’assurda e oscena contabilità dei corpi, il gioco dei modelli matematici per prevedere l’evoluzione statistica dell’infezione e della mortalità, la campagna aggressiva che induce a un’obbedienza passiva a politiche insensate che colpiscono gravemente la vita quotidiana di tutte le persone, tutto questo configura un uso aggressivo della paura come arma della guerra che è condotta contro di noi. Dobbiamo liberarcene, pur essendo consapevoli della grande paura che produrrà in loro il sapere che abbiamo perso quella che essi hanno generato, e del fatto che questo, accrescendo il loro panico, può condurli a follie ancora più grandi.
Il primo passo chiaramente è recuperare il senso delle proporzioni. La maggior parte della gente potrà ricevere il virus anche senza saperlo: non avrà sintomi. Un piccolo numero avrà sintomi leggeri, come quelli di una normale influenza. Solo una persona su 20 andrà incontro a una crisi. Molto pochi moriranno.
Il virus costituisce una minaccia reale ed esige risposte chiare. Invece di generare una paura passiva, come sta accadendo, si potrebbe condividere la scarsa informazione affidabile di cui si dispone per aprire dibattiti che considerino le varie opzioni e tengano conto soprattutto dei diversi contesti. Non è la stessa cosa affrontare la minaccia in una piccola comunità indigena o in un grande mostro urbano.

Due elementi di informazione affidabile sembrano particolarmente importanti. Se l’infezione viene individuata in tempo e si prendono le misure adeguate, le complicazioni e i rischi sono considerevolmente minori. Secondo, le persone con maggiori sofferenze e rischi sono quelle che si trovano già in condizioni di salute delicate, come anziani molto malati che possono morire quasi per qualsiasi causa.
Informazioni di questo tipo consentiranno di perdere la paura del virus … anche se non la precauzione. Staremo all’erta per fare ciò che è più adeguato fare di fronte ai primi sintomi. E avremmo un’attenzione particolare verso le persone più vulnerabili, cosa che certamente una normale decenza ci richiede di fare in qualsiasi circostanza. Il virus, ad esempio, ha consentito di rendere evidenti le pessime condizioni in cui le persone d’età avanzata venivano normalmente tenute, anche nei paesi più ricchi.
Dobbiamo condividere esperienze e informazioni che rivelino le nostre capacità di autonomia, i modi in cui possiamo resistere bene alla minaccia e approfittare della congiuntura per riorganizzare la vita quotidiana in forma più sensata e gioiosa. Invece della paura, la precauzione. E dedichiamoci soprattutto a costruire una nuova speranza.
Le aspettative di tornare alla normalità continueranno a fallire. Resteranno inevase tutte le promesse che alimentano l’illusione che sarà possibile recuperare quanto si è perso. Allo stesso tempo si moltiplicheranno le testimonianze di quanti stanno utilizzando la congiuntura per mantenere le vecchie tradizioni e gli antichi sogni della costruzione autonoma di propri mondi.
La speranza che così si sta materializzando non è ideologica né basata sull’annunzio di nuove terre promesse. Spesso per ragioni di stretta sopravvivenza, ogni giorno si trasformano in realtà innumerevoli utopie concrete che si innalzano serenamente e orgogliosamente sulle rovine di un mondo che finisce, quello che ci fa guerra.
Fonte: “Contra el miedo, la esperanza”, in La Jornada, 21/09/2020.
Traduzione a cura di Camminardomandando.
Buon articolo. Mi sento in totale accordo con il sig. Gustavo Esteva.Grazie
Grazie sig. Gustavo, è assolutamente condivisibile ciò che lei ha scritto. Vi è ancora spazio per l’autonomia responsabile e consapevole anche in un contesto complesso ed estremamente delicato come quello mondiale. La paura incontrollata è letale! L’assunzione di una condotta responsabile e capace di aprire spazi di autonomia, ci chiama ad assumerci l’impegno attivo a preservare la vita dalle minacce criminali di un modello di sviluppo che è inesorabilmente fallito.