Cambiamento climatico e Protocollo di Kyoto
Il cambiamento climatico è un rilevante problema ambientale, con pesanti ricadute a livello sociale ed economico. Come previsto dai più importanti organismi di ricerca internazionale ormai da decenni, l’aumento della concentrazione atmosferica dei gas ad effetto serra (legato alle emissioni antropiche) riscalda il clima terrestre, determinando una serie di conseguenze importanti e rischiose a carico dei vari comparti ambientali.
La mitigazione climatica è quindi ormai diventata da molti anni una pratica imprescindibile, che vede impegnati (più o meno!) i diversi Stati nazionali nell’ambito dei liberi accordi internazionali di tutela climatica, tra cui spicca il Protocollo di Kyoto.Il Protocollo di Kyoto, nato nel 1997 per contrastare il cambiamento climatico ed in vigore dalla primavera del 2005, chiede un impegno ai vari Stati sottoscrittori finalizzato alla riduzione delle proprie emissioni climalteranti, nell’ambito di “impegni comuni ma differenziati”: nell’ambito del Protocollo, infatti, ogni Stato ha la necessità di mettere in atto azioni di portata più o meno intensa in funzione del proprio “peso” nell’ambito del contributo emissivo antropico globale, differenziando così il proprio impegno sulla base della propria “responsabilità emissiva”.
E gli Stati, dopo aver sottoscritto il Protocollo di Kyoto cosa hanno fatto? Hanno logicamente allocato i propri obblighi nazionali ai “grandi emettitori” presenti sul proprio territorio nazionale ed in settori particolarmente energivori, realizzando contemporaneamente sistemi di incentivazione per diminuire l’“inquinamento diffuso” mediante impianti a più alta efficienza e a più bassa emissione: dagli sgravi per interventi di efficientamento domestico, agli incentivi per la rottamazione veicolare, passando per l’incentivazione alle fonti rinnovabili, gli Stati hanno identificato un pool di strumenti per incentivare i “piccoli inquinatori” (del settore industriale ma anche domestico) a ridurre i propri livelli emissivi.
Ma ritornando ai “grandi inquinatori”, dal 2005 si sono trovati caricati di obiettivi di riduzione delle proprie emissioni, un obbligo da ottemperare mediante interventi sui propri cicli produttivi e successivamente da rendicontare in maniera specifica. Il meccanismo utilizzato per la gestione delle riduzioni emissive delle grandi imprese europee si chiama EU-ETS (European Emission Trading Scheme),il meccanismo coerente con le indicazioni del Protocollo di Kyoto che l’Europa si è data come cardine per l’impostazione delle proprie politiche climatiche: nell’ambito di questo meccanismo ogni Azienda riconsegna annualmente una serie di “permessi di emissioni” sul proprio conto emissivo virtuale collegato al meccanismo dell’ETS, rendicontando così il proprio impegno di riduzione mediante l’utilizzo di una sorta di strumento creditizio.
Un impegno aziendale di riduzione emissiva che quindi deve essere pianificato, progettato, realizzato e verificato da parte di soggetti terzi all’Azienda, tipicamente enti di certificazione privati ed accreditati: il Protocollo di Kyoto –infatti- prevede spesso e logicamente delle “collaborazioni” tra soggetti pubblici (Stati Nazionali) e privati (aziende, enti di certificazione, etc.), ciascuno dei quali è chiamato a giocare un ruolo diverso ma attivo nella realizzazione degli indirizzi normativi nazionali, o nella effettuazione delle misure di riduzione,o nel controllo circa l’adeguatezza delle medesime misure.
E se l’Azienda si accorge di non riuscire a raggiungere nell’anno i propri obiettivi, o comunque trova eccessivamente costose le misure per la propria riduzione emissiva?
I meccanismi di flessibilità del Protocollo di Kyoto
Sempre nell’ambito dello strutturato sistema del Protocollo di Kyoto, sono stati introdotti i cosiddetti “meccanismi di flessibilità”, cioè strumenti che permettono all’Azienda il soddisfacimento dei propri obblighi di riduzione emissiva mediante l’acquisto di crediti di emissione, equivalenti a riduzioni emissive o ad assorbimenti forestali delle emissioni climalteranti: questi crediti sono generati in maniera volontaristica da soggetti presenti sul mercato, mediante progetti internazionali nel campo dell’energia o della gestione forestale sostenibile. Perché, da quando esiste l’uomo, se c’è un bisogno ecco che nasce qualcuno che può soddisfartelo in cambio di una remunerazione: si chiama “mercato”, ed è il luogo dove la domanda e l’offerta si un bene o di un servizio si incontrano per uno scambio remunerato. In questo caso la domanda e l’offerta riguardano azioni ambientali positive, per la riduzione delle emissioni di gas serra, un tipo di mercato nuovo ed environmental-based, che chiama l’economia e le leggi di mercato a supporto di azioni green. E questo è il primo dei problemi.
Ma come si trasferiscono le azioni positive, dall’effettivo realizzatore all’Azienda obbligata? Il Protocollo di Kyoto e la normativa collegata individuano i “crediti di carbonio” come gli strumenti idonei a questo tipo di “scambio”: si tratta di veri e propri titoli che sono generati dalla relazione tra soggetti privati (che realizzano investimenti specie di natura energetica in giro per il Mondo) ed Enti di certificazione accreditati (che verificano il progetto internazionale e ne certificano il suo potenziale creditizio). Una volta che il Progetto è certificato viene iscritto nell’elenco ufficiale dei progetti approvati dall’UNFCCC (United Nation Framework Convention on Climate Change) ed i relativi crediti sono collocati su una apposita borsa, pronti per essere annullati dopo l’acquisto da parte di soggetti obbligati.
La logica del Protocollo di Kyoto si basa quindi –di fatto e fortemente- su questa azione volontaria di soggetti privati che fanno investimenti internazionali per realizzare interventi in Paesi in via di Sviluppo (ed Enti certificatori che controllano), ricevendo poi la remunerazione per il proprio investimento attraverso la vendita dei crediti a coloro che sono normativamente caricati dagli obblighi di riduzione emissiva.
In particolare, i cosiddetti “meccanismi di flessibilità” individuati dalla normativa di Kyoto come strategie per promuovere azioni di mitigazioni climatica sono:
Emission Trading Scheme (ETS)
Clean Development Mechanism (CDM)
Joint Implementation (JI)
che sono mossi alla base da una logica di flessibilità operativa ed economica.
Flessibilità operativa perché si tratta, di fatto, di una delega a terzi di realizzare azioni di riduzione normativamente a carico di un diverso e specifico soggetto economico: flessibilità economica perché questi interventi internazionali possono costare meno rispetto a quelli domestici, e quindi generare risparmi nell’ambito degli sforzi di riduzione (a parità di risultati ottenuti).
Se poi si guarda agli intenti del legislatore, specie con il meccanismo dei CDM (il più utilizzato meccanismo, con quasi 3.200 progetti registrati in Africa, Asia Pacifico, Europa orientale e America Latina e Caraibi)questi intende realizzare interventi di trasferimento tecnologico verso i PVS generando così, insieme alle azioni di mitigazioni climatica, contemporanei miglioramenti economici e sociali in questi Paesi emergenti. Una operazione che dal punto di vista ambientale, considerando che la CO2 è un “inquinante globale” (cioè un inquinante che genera effetti non localizzati nel luogo di emissione, ma su tutto il globo), è operativamente e tecnicamente sensata.
Senza addentrarci nella spiegazione dei meccanismi, la logica teorica è comunque chiara: chi inquina può esternalizzare parte dei propri oneri di riduzione verso soggetti che investono in progetti ambientalmente, socialmente e climaticamente vincenti, ottenendo i loro crediti remunerandoli per il proprio lavoro.
Ma siamo sicuri che tutto funzioni? Se già ci sono seri dubbi che un meccanismo di tipo economico possa aiutare a contrastare tale e tanto problema climatico, tanto più si registrano problematiche tecniche sui progetti o anche vere e proprie truffe che spesso hanno consentito di aggirare il senso di questi progetti. Le denunce a personaggi che si sono inventati “imprenditori del clima” (o “truffatori del clima”) sono ormai numerose in tutto il mondo, a discapito del funzionamento di un sistema che -ammesso e non concesso che sia davvero efficace per la tutela climatica, in quanto basato si logiche puramente ed esclusivamente economiche- rischia di essere ulteriormente delegittimato e perdere di credibilità.
In ogni caso, nelle speranza che la quota di progetti realmente validi ed ambientalmente efficaci possa crescere in futuro, i criteri che questi progetti internazionali sempre richiedono ai fini della trasparenza e verificabilità sono:
la loro realizzazione secondo i criteri tecnici della normativa di Kyoto
che la riduzione emissiva sia stimata mediante iter tecnici affidabili e riconosciuti
che i progetti e la relativa contabilità carboniosa siano verificati da terza parte competente
che il progetto e le sue performance ambientali siano monitorati nel tempo
Una serie di criteri, insomma, che possono valere come riferimento generale per qualsiasi tipo di azione nell’ambito della riduzione o compensazione di carbonio, anche di natura volontaria.
Dalle azioni obbligatorie a quelle volontarie: il carbon offset volontario di prodotti, processi, eventi
A fianco dei mercati cogenti collegati agli obblighi di Kyoto, già dagli ultimi anni del secolo scorso sono nati i mercati volontari di carbonio a cui accedono domanda ed offerta di azioni volontarie di riduzione (ed assorbimento forestale) delle emissioni.
Si tratta di iniziative proattive in cui “soggetti non obbligati” scelgono di compensare le emissioni collegate ad alcune proprie attività al fine di comunicare il proprio rispetto ambientale aziendale, di operare green marketing, di riposizionarsi strategicamente sul mercato in chiave green: c’è il cantante che compensa le emissioni dei suoi concerti, l’azienda che compensa le emissioni del proprio giornale aziendale, il noleggiatore di flotte aziendali che neutralizza le emissioni dei propri autoveicoli dati in uso alle aziende … etc. L’elenco sarebbe lungo, perché ormai si tratta di un mercato che sta crescendo nel tempo, in maniera importante.
E se si sono verificate problematiche e truffe sui sopraccitati “mercati regolati” collegati al Protocollo di Kyoto, tanto più la problematica della scarsa chiarezza o delle truffe rischia di essere attuale sui mercati volontari, per loro natura “non regolamentati”. La storia ci ha mostrato diverse situazioni di progetti con sovrastima della capacità di riduzione/assorbimento, o minati dalla doppia contabilità di carbonio rispetto allo Stato nazionale, non addizionali, etc, logica per cui la selezione di progetti certificati e tracciabili (quindi quanto più vicini ai requisiti dei progetti cogenti collegati al Protocollo di Kyoto) diventa logica prioritaria per essere sicuri di non incorrere in truffe o problematiche simili.
E quando,avendo avuto cura di scegliere progetti certificati e di fiducia, non ci si mettono i progetti non validi, l’azione di offset aziendale rischia di essere “complicata” dal greenwashing aziendale o comunque dalla cattiva comunicazione aziendale circa la propria attività di compensazione.
Caso esemplare sono alcune Aziende nazionali che tuttora comunicano con molto clamore la neutralizzazione di alcune proprie attività (emissioni del sito web aziendale, dell’energia elettrica consumata negli uffici della propria sede centrale, etc) a fronte di politiche economiche sostanzialmente irrispettose dell’ambiente. Si tratta di vero e proprio greenwashing, ed i casi sono ormai svariati, comportando però il serio effetto negativo di screditare il meccanismo delle compensazioni volontarie, che ad alcune condizioni può invece essere uno strumento utile per il contrasto al climate change. E purtroppo questi comportamenti di greenwashing rischiano di dare fiato a coloro che vedono il carbon offset solo come strumento a disposizione usato dalle Aziende per “lavarsi la coscienza”, senza un loro minimo cambio di rotta verso politiche più verdi.
Per carità, il rischio c’è… ma basta prendere le adeguate cautele!
Conclusioni: cosa fare?
Ognuno deve giocare il proprio ruolo per la tutela climatica, anche in logica proattiva e più stringente rispetto agli obblighi normativi a proprio carico, in maniera chiara e pulita, considerando che la problematica climatica è urgente e di ampia portata. L’unica accortezza è quella di riuscire, qualora una Azienda o una PA voglia fare carbon offset (e relativa comunicazione ambientale), a selezionare progetti di indubbia serietà ed affidabilità, quanto più possibile prossimi territorialmente e verificabili, affidandosi a chi ha reale esperienza di questo mondo delle compensazioni volontarie.
E poi comunicare bene, in maniera trasparente e chiara cosa si è neutralizzato, quanta CO2 è stata neutralizzata, quale iter di certificazione è collegato al progetto, dove è stato realizzato il progetto compensativo: sembra l’ABC di buonsenso per qualunque tipo di attività di comunicazione, ma purtroppo diversi casi (anche recenti) dimostrano che non è così.
Credo che se si riesce a tenere ben presente il criterio di efficacia delle comunicazione (mediante selezione di progetti seri e concreti), ecco che allora molti dei progetti oggi appoggiati sarebbero in automatico ragionevolmente scartati, a favore di soluzioni che siano realmente in grado di conciliare positività ambientali, sociali ed economiche. Riuscendo a far sì che anche i progetti compensativi, strutturalmente caratterizzati dai sopraccitati problemi, riescano invece ad essere validi dal punto di vista concreto e reale, promuovendo quella sostenibilità che prima di tutto è azione locale (per effetti globali), tracciabile, sociale, educativa.
Paolo Viganò, Ph.D. – Responsabile Scientifico di Rete Clima® – non profit
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