Espansione e trasformazione sono i processi che ci avvicinano all’8 marzo del prossimo anno, quando lo sciopero femminista transnazionale si ripeterà per la quarta volta. Espansione e trasformazione sono il segno di un movimento sociale che è sempre un passo oltre le sue forme organizzate, che è segnato dalle contingenze con le quali si confronta e che contemporaneamente mette in tensione dall’interno tutti i movimenti di contestazione del programma neoliberale, che oggi devono necessariamente fare i conti con l’istanza femminista. L’eccellente editoriale di ∫connessioni precarie

Il movimento delle donne si sta espandendo e si sta trasformando. Si sta espandendo perché la risonanza globale della lotta contro la violenza maschile ha acceso nuove insorgenze in Arabia Saudita, Marocco, Algeria, Palestina, Sudafrica. Si sta trasformando perché in ogni parte del mondo – dal Libano alla Bolivia, dall’Argentina all’Italia, dal Cile alla Siria del nord ‒ le donne si confrontano con le diverse condizioni sociali e politiche in cui quella violenza agisce e viene contestata: la guerra, l’imposizione armata delle misure di austerità, la precarizzazione intransigente e il razzismo istituzionale, cambi di governo che inevitabilmente modificano tanto le aspettative quanto gli spazi dell’iniziativa politica.
Espansione e trasformazione sono il segno di un movimento sociale che è sempre un passo oltre le sue forme organizzate, che è segnato dalle contingenze con le quali si confronta e che contemporaneamente mette in tensione dall’interno tutti i movimenti di contestazione del programma neoliberale, che oggi devono necessariamente fare i conti con l’istanza femminista. Espansione e trasformazione sono i processi che ci avvicinano all’8 marzo del prossimo anno, quando lo sciopero femminista transnazionale si ripeterà per la quarta volta. Proprio perché lo sciopero si ripete, deve essere ripensato di nuovo affinché sia il momento in cui le donne che stanno combattendo le manifestazioni molteplici del dominio maschile possano tornare a prendere parola globalmente, per mettere in comunicazione insorgenze che altrimenti resterebbero isolate e frammentate, per dare loro uno sbocco potente e simultaneo capace di tenere aperto il processo della loro connessione.
La sfida è prima di tutto quella della continuità. In Italia Non Una di Meno deve affrontarla in condizioni diverse rispetto al passato, che impongono di rimettere in squadra l’iniziativa politica per rilanciarla. Alle spalle ci sono indiscutibili successi: tre scioperi politicamente dirompenti, che sono andati molto al di là di una dimensione puramente simbolica e militante, che hanno incrinato gli assetti consolidati delle politiche dei movimenti e dei sindacati e che, soprattutto, hanno dato a centinaia di migliaia di donne di generazioni diverse, lavoratrici, migranti la possibilità di riconoscersi ed esprimere in massa e su scala globale il rifiuto di ogni manifestazione della violenza patriarcale. Il movimento dello sciopero femminista ha aperto lo spazio politico della grande manifestazione di Verona, dove Non Una di Meno ha guidato una moltitudine di donne e soggetti diversi contro il patriarcalismo reazionario del World Congress of Family, dando una spallata decisiva al governo degli orribili Fontana, Pillon e Salvini.
Oggi però il quadro è cambiato. Questi personaggi sono passati dietro le quinte, pur essendo sempre una minaccia all’orizzonte. Il nuovo governo continua con altri mezzi le politiche di quello precedente, pur avendo messo da parte i suoi toni più violenti e grotteschi, e agita promesse di discontinuità che rendono meno nitido il fronte del conflitto. In secondo luogo, la radicalizzazione, la durata e la crescita del movimento femminista lo espongono al rischio di perdere la propria differenza. Perdere la propria differenza significa diventare una qualsiasi struttura militante intrappolata nel proprio gergo e quindi incapace di parlare alle donne che in questi anni sono scese in piazza, o che possono e vogliono farlo perché non accettano più di subire violenza, molestie sul lavoro, sfruttamento, razzismo.
Cancellare quella differenza significa pensare che Non Una di Meno sia una sommatoria di identità – delle sue strutture di coordinamento, di organizzazioni politiche o sindacali, di collettivi, di generi ‒, anziché un processo collettivo di presa di parola, di protagonismo e iniziativa innescato dall’individuazione di una linea di conflitto irrinunciabile ‒ la lotta contro la violenza maschile sulle donne ‒ a partire dalla quale mettere radicalmente in discussione l’insieme dei rapporti sociali che si alimentano di quella violenza. Rinunciare a quella differenza significa, infine, perdere di vista la dimensione di massa e globale del movimento, trattandolo come un insieme di soggettività già libere che si comportano come la più antiquata delle avanguardie e quindi smettono di misurarsi con la lotta quotidiana che milioni di donne, in condizioni tra loro diversissime, ogni giorno combattono per la propria liberazione.
Questa lotta quotidiana deve essere centrale nella manifestazione del 23 novembre e in direzione dello sciopero dell’8 marzo, perché secondo noi solo così Non Una di Meno può vincere la sfida della continuità, confermando la sua capacità di espandersi e trasformarsi sotto la spinta del movimento sociale globale di cui è parte.

Ripensare lo sciopero femminista significa dunque radicarlo nel presente, e lo sguardo sul presente deve essere transnazionale. Negli ultimi anni l’America Latina è stata il teatro dell’accelerazione globale verso l’8 marzo e oggi è travolta da eventi che avranno effetti profondi sul processo dello sciopero. In Cile, Ecuador e Bolivia le donne che lo hanno tenuto aperto con la loro lotta contro i femminicidi e per l’aborto libero, sicuro e gratuito oggi sono protagoniste delle sollevazioni contro il neoliberalismo autoritario e si stanno scontrando con forme sempre più violente di repressione. Gli stupri con cui la polizia sta punendo pubblicamente le donne in rivolta indicano il carattere patriarcale della violenza esercitata dallo Stato, il cui scopo è di imporre un’obbedienza indiscutibile a tutti quelli che stanno insorgendo perché non vogliono più essere oppressi, sfruttati e impoveriti.
In Argentina, il movimento femminista ha contribuito in modo determinante alla caduta del governo Macri, ma ora si deve confrontare con le promesse di discontinuità della compagine kirchnerista che ha alimentato il suo sostegno elettorale facendo propria la battaglia per la libertà di aborto, ma che non intende rispondere alle rivendicazioni avanzate dalle donne contro l’indebitamento che impone loro di riprodurre la vita in condizioni di miseria. Sul fronte siriano, Erdogan ha dovuto scatenare una guerra per schiacciare la lotta delle donne curde contro il dominio maschile e del capitale, e per governare su commissione dell’Unione Europea i movimenti di milioni di persone attraverso i confini, i movimenti di donne che stanno sovvertendo praticamente l’ordine patriarcale e che a ogni passo corrono il rischio di essere stuprate e uccise pur di conquistare la propria libertà.
Una miriade di insorgenze alimenta il movimento globale delle donne, molte si richiamano l’una all’altra per consolidare la propria forza, nessuna può superare i limiti della situazione particolare da cui scaturisce in assenza di un piano di comunicazione e organizzazione transnazionale capace di mettere al centro dell’iniziativa le condizioni materiali in cui la violenza patriarcale si produce e riproduce. Non esiste ancora una rete operativa transnazionale del movimento femminista, ma la sua costruzione deve essere una delle poste in gioco del prossimo sciopero dell’8 marzo.
Fonte: ∫connessioni precarie
∫connessioni precarie è un’area di uomini e donne, precari e non, migranti e italiani che hanno assunto come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e complessiva del lavoro contemporaneo. La nostra scommessa è quella di rompere l’isolamento dei lavoratori e delle lavoratrici a partire dalle differenze che li dividono. Si tratta di portare alla luce il legame globale tra le figure della precarietà, di pensare a partire da qui possibilità di lotta che sappiano realmente colpire dove fa più male, dove si produce e riproduce il capitale. Non di rappresentare il lavoro in nome di una sua presunta unità, e neppure di mettere in scena momenti simbolici di conflittualità… (continua qui)
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