Il treno parte, noto è il binario e sconosciuta la prossima fermata, mi affaccio al finestrino e spero di non essere dentro a una scena del film “Amici miei”. Se mai lo fossi, continuate a fare i generosi: menate con dolcezza, meglio gli schiaffi vostri dei baci, avvelenati, del potere. Aveva scritto così al momento di lasciare la “bottega”, il blog straordinario di un nostro compagno di sempre, Daniele Barbieri. Che ricorda tra le lacrime Marco Peressi, Mark Adin, per i lettori, uno, un altro di quelli cresciuti nella rabbia insostenibile verso l’ingiustizia che ci insegnano a restare umani, sempre. Per lui, come per quelli che ci hanno provato davvero a cambiare il mondo, la sconfitta non era disonore né vergogna. Marco non muore per “il destino”, scrive Daniele, perché a ogni morte di cancro dobbiamo ricordarci che la responsabilità – in misura minore o maggiore – è sempre dei padroni del mondo: sono loro ad avvelenarci ogni giorno
di Daniele Barbieri
Domenica è morto Marco Peressi. Per chi da tempo frequenta questa “bottega” lui era Mark Adin: con questo pseudonimo ha scritto – dal 2011 al 2013 – ogni lunedì o quasi. Racconti soprattutto ma anche articoli e riflessioni che “catturavano” sempre. Marco/Mark aveva una folle voglia di scrivere (ma anche di narrare, davanti a persone amiche o sconosciute) e sapeva farlo. Al centro c’erano molto spesso i “senza parola”: «emarginati, balordi e ribelli» come li chiamò Danilo Montaldi in «Autobiografie della leggera» (un libro ormai dimenticato ma solo perchè siamo più poveri anzi miserabili, non di soldi ma di sentimenti). E vicini, talvolta intrecciati a loro, ai balordi, c’eravamo noi cioè la generazione benedetta/maledetta del ’68 e degli anni ’70. Come nel post intitolato Guardando oltre – di Mark Adin che trovate qui sotto.
Non è la prima volta – purtroppo – che tocca a me scrivere di amici/amiche, di compagne/i, di persone più che care, quando muoiono. Anche stavolta scrivo fra le lacrime senza sapere se riuscirò a farmi capire. Penso di doverlo a Marco/Mark, di salutarlo così, visto oltretutto che lui ha voluto si sapesse della morte solo dopo la cremazione.
Lo avevo visto a dicembre nella (sua e non sua) Novara e poi nelle Valli Valdesi (di cui si era innamorato, per “colpa” di Malvina). Sapeva di non avere molto tempo però non soffriva (o almeno così mi disse) ed era pieno – più che mai – di idee, voglie e progetti.
Un compagno vero: generoso e intelligente. Sarebbe un posto bellissimo il mondo se ci fossero tante persone come lui. E ce ne sono, certamente: non abbastanza però.
Marco non è morto per “il destino”. A ogni morte di cancro dobbiamo ricordarci che la responsabilità – in misura minore o maggiore – è sempre dei padroni del mondo: sono loro ad avvelenarci ogni giorno. Ed è anche per questo che continuiamo a lottare, contro chi ci sfrutta, ci succhia la vita e fa vivere molte/i di noi nella merda per poi dire “lo sentite anche voi? puzzano”. Io, come Marco e altre/i, per fortuna o chissà per cosa, ho evitato di finire nella merda, nelle galere o nei manicomi (che esistono ancora ma con altri nomi). Però non ho dimenticato chi siamo noi e chi sono loro. E come Marco/Mark ha scritto – a «Marco di Tuscania» – ancora una volta ripeto e urlo: «abbiamo perso, ma la sconfitta non si è mai volta in vergogna e disonore». Molte/i di noi continuano a lottare. Hasta siempre. [db]
di Mark Adin
Caro Marco di Tuscania,
a te mi rivolgo perché sei come noi di quelli cresciuti nella rabbia, che a testa bassa si son lanciati come arieti e hanno trovato duro.
Scrivo a te perché anche tu fatichi a liberarti di quella capsula coriacea di dolore, che più ti è casa e più ti ci imprigiona. Parlo a te perché mi sembra riconoscere quei moti folli, quelle tempeste di pensieri che vorresti sgorgassero dal capo e invece, come in crolli di dighe, travolgono pietà e ragione senza attenuare il male.
Li conosciamo quei momenti duri, quando il sole, che c’è dentro noi, al calor bianco arde e pure non fa luce, perché il bagliore dei suoi raggi implode e ci consuma.
Io l’ho provato, Marco, il sopravvenire dell’aggressore in forze che ci abbatte, che vince e non ci doma. Piango sommesso chi non ce la fa e conto all’indietro, per non sentirmi solo, ed ogni grido che sento provenire dal buio della notte mi rende forza e unisco, come posso, il mio.
In quei lontani anni abbiamo perso, Marco, ma la sconfitta non si è mai volta in vergogna e disonore.
Ci lascia cicatrici, quello sì: siamo un po’ matti, abbaiamo alla luna, ci commuoviamo come vecchi e ci incazziamo impetuosi, come ragazzi, senza prudenza, porgendo il viso aperto, balliamo intorno al fuoco.
Eppure quell’agitarsi continuo delle nostre idee, quel dolore che ci afferra come morso di animale è diventato il carcere da cui dobbiamo uscire. Andiamo fuori! Non superare il muro ci costerà la morte, non quella che ci aspetta tutti, quella che più temiamo: la morte in vita. Se non oltrepassiamo il muro ci troveranno ormai senza più fiato, ancora presi alla catena, rinsecchiti e vuoti come spoglie di serpi tra le foglie.
Dobbiamo buttare la corazza, Marco, che si ritorni a vivere.
Warren Buffett, il terzo uomo più ricco del mondo, ha detto: “La lotta di classe? Esiste: l’abbiamo vinta noi”.
E noi l’abbiamo persa, fratello, e ci fa male come una tortura, e ci indurisce il pelo, ma siamo ancora in piedi. Nel perdere non c’è nulla di sbagliato, quando si è combattuto. Ci insegna a non sbagliare.
Quante volte mi son sentito solo, quante volte, bestemmiando dio, ho chiamato, quante volte non è arrivata la cavalleria, quante volte sono rimasto come Orlando a suonare l’olifante e a sentire il suono perdersi nel vento e il mio cervello pisciato dalle orecchie in quello sforzo immenso?
Massì, senza retorica: quante volte mi son sentito banalmente un pirla, uno che ci è rimasto, un sopravvissuto ad un passato immemore, un randagio abbandonato in strada?
Io sono qua.
E non c’è niente, in me, che non funziona.
Io come te son solo intriso d’ urla, di quel sangue versato, dei botti nelle strade che fanno fumo acre, dei calpestii, delle violenze inflitte, insomma di tutto ciò che prende parte al mondo. Stiamo vivendo, Marco, stiamo vivendo.
C’è tanta libertà che ancora si dispiega, come l’abbiamo intesa e la intendiamo, orgogliosa e antagonista, che ha come bandiera il “NO” detto al potere. Possiamo andare oltre, attraverso i nostri sguardi ancora troppo affollati di fatti e di persone che non ci sono più. Dobbiamo ricorrere a un buon metabolismo e detossificarci, sciogliere il nodo in gola.
Nelle aggregazioni spontanee, nei centri sociali, nei nuovi movimenti, sul web, nei sindacati autentici, nei blog come questo, dalle cui pagine traluce la semplice, quotidiana voglia di restare umani, come diceva Vittorio, c’è il germe di una rinnovata spinta che fatica, è intermittente, esita spesso, ma resiste. Ci dia la forza per lottare, ma anche per essere felici nella condivisione delle nostre vite, che la felicità ci serve.
Prima o poi, la consapevolezza aiuterà a toglierci di dosso tutta la crosta fatta di sedimenti rabbiosi e di rancore, a rinnovare la Liberazione, per non sentirci più, mai più, ostaggi del dolore.
Il mio più forte abbraccio, Marco, a te per tutti. Uscirne fuori non ci farà che bene: saremo ancora pronti a “levare, alta, la fronte”.
Mark Adin
Care amiche ed amici, oggi concludo il viaggio su questo amato blog. Come in tutte le esperienze che iniziano e finiscono, prima o poi, bene passar la mano.
Dire che è stato bello pare poco. Ci siamo conosciuti, annusati, respirati, sino ad arrivare a un passo dal bacio in bocca oppure il pizzicotto.
Mi fermo qui dopo due anni e mezzo, ligio all’appuntamento del lunedì alle dodici con qualsiasi tempo. Ora ho bisogno di guardare ad altro: è nomadismo organico e io sono osservante.
Vi abbraccio con amicizia, fraternità ed affetto e ringrazio soprattutto Daniele, trafficato crocevia umano e biblioteca itinerante, ma non solo: anima e amico.
Una per una e uno per uno, singolarmente, col tempo necessario per ciascuno, dico grazie a tutti quanti voi, perché mi mancherete.
Il treno parte, noto è il binario e sconosciuta la prossima fermata, mi affaccio al finestrino e spero di non essere dentro a una scena del film “Amici miei”. Se mai lo fossi, continuate a fare i generosi: menate con dolcezza, meglio gli schiaffi vostri dei baci, avvelenati, del potere.
Stay human, restiamo umani, oggi soltanto Mark.
Fra i tanti post di Mark questo è rimasto uno dei più letti e linkati: Lettera a un’amica su Calabresi, Pinelli e noi
Sui suoi libri ecco 3 recensioni: «Mole Skin» di Marco Peressi, Ancora su «Mole Skin» di Marco Peressi e Marco Peressi: «Madonna di Comerzo»
NELLA FOTO QUI SOPRA Marco/Mark è con Paolo/Pabuda; un’amicizia (e più) nata su questo blog-bottega.
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