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Condannati al silenzio

Annamaria Rivera
05 Dicembre 2013

prato

di Annamaria Rivera

Niente di edificante c’è in questa cupa tragedia. Niente che possa permetterci di dire «eppure…». Eppure si ribellano, per esempio, come poté dirsi degli schiavi di Rosarno a gennaio del 2010. Eppure hanno il coraggio d’incrociare le braccia e sfidare il caporalato, come dicemmo dei duemila braccianti immigrati che alcuni mesi dopo occuparono sedici «rotonde» tra Caserta e Napoli.

No, gli operai cinesi arsi vivi, intrappolati come topi fra pareti di cartone e pavimenti d’amianto, non erano che forza-lavoro bruta, nuda vita a disposizione del capitale globalizzato.

Privati di ogni alternativa e possibilità di uscita dalla loro condizione, quindi appropriati da padroni e padroncini di stile ottocentesco sì, ma avvezzi alle Porsche e a frequenti viaggi intercontinentali: essi stessi al servizio del cieco meccanismo del profitto e della competitività a ogni costo e su scala planetaria.

Scrivo volutamente nuda vita: cioè spogliata del nome, della voce, di ogni diritto e statuto giuridico, perfino della possibilità di ribellarsi. Sebbene il concetto sia abusato, non è improprio per dire di esistenze che passano senza nome in sordidi capannoni ove si lavora, si vive e si muore: zone di sospensione quasi totale della legge, comparabili perciò, in qualche misura, ai campi di concentramento. Nei quali proprio perché la legge era sospesa «tutto era possibile», scriveva Hannah Arendt. L’analogia non è troppo azzardata e irrispettosa, se è vero che è venuta in mente anche a Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana: «Vivono e lavorano in soppalchi che ricordano quelli di Auschwitz».

Queste piccole Dachau – più che Auschwitz – ci confermano che l’epoca del neoliberismo trionfante non ha affatto archiviato relazioni e condizioni di lavoro «arcaiche». Al contrario: il tempo del capitale globalizzato ha assorbito perfettamente il «non-contemporaneo», per dirla alla maniera di Ernst Bloch, sussumendone anche le forme di sfruttamento estreme, fino alla schiavitù. L’«arcaico» è, infatti, perfettamente funzionale alla delocalizzazione in loco, come si dice, e alla logica della competitività. Da cui traggono profitto numerosi attori economici, di ogni livello e non solo cinesi, fino all’immobiliare italiana proprietaria dello squallido capannone. Senza una rete vasta di profittatori e complici non si costruisce un sistema economico illegale dal valore di almeno un miliardo di euro l’anno. Sappiamo, per esempio, di una «missione» in Cina di un anno fa, promossa dall’Unione industriale di Prato e finanziata dalla Regione Toscana. Oltre lo scopo dichiarato e conseguito – ammorbidire i controlli severi e minuziosi di Pechino sui prodotti tessili in ingresso nel Paese -, quali ne erano gli obiettivi non dichiarati, quale la contropartita italiana?

Se davvero capillari ed efficaci, i controlli da parte di autorità locali e nazionali (ispettorati del lavoro, polizia, carabinieri, vigili urbani, guardia di finanza…) avrebbero potuto almeno inceppare un meccanismo che si perpetua da un ventennio. Ma al di là di questo, per sottrarre al silenzio e all’impotenza le esistenze di questi operai schiavizzati niente sembra sia stato tentato neppure sul versante di misure non repressive bensì inclusive. Del tutto inefficace si è rivelato, per esempio, il decreto-legge 109/2012. Questo dispositivo stabilisce che, in casi di «particolare sfruttamento lavorativo», si possa concedere il permesso di soggiorno «allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro». In realtà, avendo mal interpretato la direttiva europea che lo imponeva, quindi non prevedendo alcun meccanismo di tutela per chi denuncia, il decreto è rimasto in sostanza lettera morta, come insistono da tempo sindacati e associazioni antirazziste.

C’è un altro aspetto sconfortante in questa tragedia. Nel corso degli anni la propaganda e la politica al servizio della xenofobia hanno costruito l’immagine indiscutibile di una diaspora cinese «chiusa, con cui è difficile dialogare, per la quale isolarsi sembra quasi una condizione prescelta»: così dichiarava nel 2007, pur auspicando il dialogo, il ministro dell’Interno Giuliano Amato a commento dei fatti di via Paolo Sarpi, a Milano.

Quest’immagine negativa totalizzante, che non ammette eccezioni, ha pesato come un macigno sull’opinione pubblica, sulla politica, sui media. E già va declinando quel poco di attenzione e di pietas che le vittime della strage hanno ottenuto. Fino al momento in cui scrivo, a Prato nessuna visita è prevista da parte di ministri/e. Quanto al sistema d’informazione, il 1° dicembre, i quotidiani online più importanti hanno atteso ben dodici ore prima di promuovere la tragedia a notizia di rilievo.

A noi spetta tentare di tenere accesa la fiammella tremula della solidarietà e dell’empatia, consapevoli che il Macrolotto di Prato ci riguarda assai da vicino: è il «modello di sviluppo» che intendono imporci «per uscire dalla crisi»; è la sorte che già è riservata a tanta parte del nuovo proletariato arcaico, di ogni colore e nazionalità.

Fonte: il manifesto (pubblicata anche su dirittiglobali.it)

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