Non sappiamo se è stata «una delle migliori scuole del mondo», di certo quella scuola costruita soprattutto negli anni Settanta non esiste più. Di certo la scuola vive affaticata tra molti problemi e limiti. Eppure cambiare la scuola nella scuola (e con la scuola) è possibile, dicono molte donne. E sotto diversi punti di vista sta già avvenendo, uno sguardo femminista aiuta ad accorgersene. Abbiamo bisogno di sguardi e alfabeti differenti ma prima di tutto di una scuola in grado di alimentare ogni giorno quell’empatia di cui ragazzi e ragazze, bambine e bambini hanno sempre più fame, un’empatia fatta di corpi, conflitto e cura. Uno prezioso appuntamento a Roma e via web

Giocare significa entrare e uscire da mondi possibili e da universi differenti di regole. Le/i ragazzə abitano così quei mondi intermedi costruendoli insieme. Questo il meccanismo che dovrebbe innervare poi tutta la vita sociale: un futuro che è tempo di desiderio. È la delusione a disperderli: non sono «programmati» per le assenze di senso e di prospettiva. L’abbandono scolastico (15%) è il sintomo di un sistema compromesso dall’assenza di relazione che li vede obbligati dalle sole parole d’ordine «valutazione» e «merito» ormai, amplificando nuovamente quelle disuguaglianze che la scuola ha tentato di colmare dal dopoguerra a oggi. È di empatia che hanno fame, dell’incontro tra i corpi in un’oscillazione difficile ma stimolante e ricca tra conflitto e cura.
E oggi, che con «la fine del lavoro», sono venuti meno anche i tradizionali luoghi di confronto e conflitto, la scuola diventa sempre di più la polis, il legame possibile con il territorio, lo spazio della cittadinanza; ma anche della propaganda. Ovunque leggo che alla scuola manca l’infrastruttura, gli strumenti, i mezzi; è vero. Ma quello che non leggo, dal mio parzialissimo osservatorio, è la denuncia dell’assenza della cura del bene comune, quella la fanno le persone. Si alimenta così una crisi che contrappone docenti a genitori e tutti all’istituzione scolastica dimenticando le/i ragazzə. Il discorso pubblico sui giovani riguarda, invece, quasi esclusivamente il controllo; con adulti che parlano di loro ma non con loro. Ragazze e ragazzi, bambini e bambine, la cui aspirazione è l’infinito, e che già erano una categoria senza domani, assuefatti all’isolamento, quando finalmente liberati, sono stati duramente repressi come mostra il rigurgito punitivo che ha risposto alle occupazioni per non dire della tolleranza ai pestaggi. Il nostro straordinario direttore Luigi Pintor ci insegnava che «un fascista è un fascista è un fascista». Cerchiamo di non dimenticarcene ancora.
Non lasciamoci distrarre. Corpo docente non sono le poche insegnanti capaci di misurarsi in un esercizio infaticabile e continuo di «riproduzione sociale». Per molte l’insegnamento è ormai in gran parte un ripiego segnato dal pendolarismo esistenziale ancor prima che territoriale. A fronte di alcune buone pratiche ci sono troppi esempi di indisponibilità. Non serve dire di più. Poco importa se quella scuola che resiste è merito delle insegnanti, delle madri, di bambinə e ragazzə che praticano immaginazione nella relazione. Nessuno lo riconoscerà: è «la cruda essenza della biopolitica che ci chiede di mettere al mondo figli e di accudirli ma non ci riconosce nessuna maternità sociale» (Cristina Morini).
Dobbiamo avere l’onestà di dirci che «una delle migliori scuole del mondo», così come il nostro immaginario l’ha mutuata dagli anni Settanta, non esiste più, spazzata via non solo dai tagli di bilancio però (il 3,6% del Pil, contro il 5% degli altri Paesi Ue, dati Ocse) ma dalla sottrazione della cura. L’indisponibilità a farne quel «momento dialettico e generativo» (Anna Simone) tra istituzione, insegnanti e genitori – tra donne –, ha provocato l’incuria di quel comune di cui tante/i auspicano oggi il ritorno. Ci vuole un piano che limiti il danno all’educazione e alla cittadinanza. Ma prima ci vuole un patto tra generazioni e generi. Antiqua res.
Un altro legame forte, la scuola lo tesse con il territorio animando la partecipazione di soggettività differenti in una ciclica storia di frontiera, terreno costituente di relazioni. A ricordarci che la storia degli spazi, di chi li abita e di chi li governa, è una storia dei poteri.
Questi giorni ci avvertono che il tempo è finito. Se passa l’idea che la «pubblica istruzione» è prescindibile, allora sarà smantellata come dal nome del ministero; e con essa, inevitabilmente, tanto lavoro delle donne per cittadinanza plurali e democratiche. Docenti e cittadinə, con figli o senza, ci attende un’operazione di riparazione enorme.
È vero, non si è mai parlato tanto di scuola come dall’inizio della pandemia, cui si è aggiunta, a tre anni dall’inizio del Covid-19, anche la propaganda del nuovo ministro «del merito», ma in che modo se ne è parlato e tra quali soggetti? La scuola italiana è abitata da 8,5 milioni studentə e da 800 mila docenti di cui l’83% è donna eppure un’educazione sentimentale e contro le violenze e un linguaggio oltre il canone tradizionale sono lasciate alle (poche) storie di formazione personale. Certo è difficile e servono tempi lunghi per far rinascere il desiderio, le/i docenti hanno un reddito inferiore del 13% rispetto alla media Ocse (rapporto 2020); le donne in Italia hanno un reddito inferiore del 23% rispetto agli uomini; e per colmare il Global gender gap ci vorranno ancora 132 anni. Eppure cambiare la scuola nella scuola e con la scuola è possibile, anzi sta già avvenendo, basta uno sguardo femminista per accorgersene e avvicinare la buona politica alla scuola, nonostante il partito più votato tra le/i docenti nelle politiche 2022 sia stato FdI (Ipsos, 2022). Perché i femminismi ci insegnano a riconoscere nell’intersezionalità una risorsa sociale e politica e a lavorare con il mondo e con tutti soggetti che lo abitano. La scuola è un bene comune e “la sfera emotiva è una sorgente rivoluzionaria”: le passioni vanno socialmente educate e le risposte non possono che essere collettive. Una sfida per i femminismi e per le teorie della cura. Solo aprendo le nostre riflessioni ad altre che si stanno interrogando sul nesso produzione/riproduzione potremo stabilire quello che c’è da fare, con generosità e sorellanza. Un’Apertura intesa come costruzione di un linguaggio di scambio tra “emozioni e giustizia”, un border, una breccia, un valico. Tessiamo reti.
APPUNTAMENTO: 6 MARZO Qual è il rapporto tra scuola e femminismi, proveremo a metterlo a tema nell’incontro, Insegnare comunità a scuola. Desiderio, differenze, relazioni: uno sguardo femminista che attraversa i saperi (titolo volutamente mutuato dal celebre libro di bell hooks), organizzato da Leggendaria/Cara Prof, Società Italiana delle Letterate, Manifestolibri, Indici Paritari, Associazione Orlando, con la collaborazione di Archivia e dell’Associazione le Altre, il 6 marzo 2023 dalle 10 alle 18 a Feminism fiera dell’editoria femminista alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, un luogo e un evento niente affatto neutri rispetto alle pratiche e alle culture di genere (accrediti per docenti entro il 4/3, su questo link). Docenti, studentə, genitrici, amministratrici pubbliche, scrittrici, proveranno a intrecciare connessioni tra percorsi e pratiche che forzano il canone verso le relazioni, perché si facciano finalmente politica femminista, superando l’isolamento e l’idea che la scuola sia immutabile, quando invece è dentro di essa che la società cambia. Eppure le politiche educative, sociali, del lavoro e della salute mentale, non sono prioritarie in un paese sostanzialmente per vecchi (187,6 anziani ogni 100 giovani) ma lo è la formazione forzata (350 studenti in PCTO alla base militare di Signonella).
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