In questo periodo di inquietudine e di spaesamento forse abbiamo bisogno di riscoprire il cammino, la concezione salvifica del camminare. Camminare significa conoscere, capire, cambiare, migliorare le proprie condizioni, scrive Vito Teti. Camminare, però, comporta sempre anche il rischio di perdersi, che sia le fiabe che la realtà delle migrazioni contemporanee ricordano come spesso sia una fuga da una condizione oppressiva. Tuttavia non dovremmo mai dimenticare che il migrare è inseparabile dal restare. Scrive Teti: “Non sarà che l’inquietudine, la voglia di tornare, di andare, di essere altrove sono la condizione di noi umani e che forse questo, assieme al linguaggio e alla fantasia, ci ha reso diversi dagli altri animali fino a farci credere di non esserlo anche noi?”. Il cammino, anche quello interiore di chi resta, può essere dunque il modo con il quale cercare oggi altre forme di abitare e di guardare il pianeta
La concezione salvifica del viaggiare e del camminare è un dato delle culture tradizionali della Calabria. Il Cristo delle leggende e dei racconti calabresi, ma anche di altre regioni d’Italia, viaggia per il mondo – da solo o insieme a Pietro o ad altri discepoli – e sconfigge la fame, denuncia le menzogne e le oppressioni, afferma la verità e la giustizia tra gli uomini. Fiabe e rumanze (…) rivelano, infatti, una religiosità caratterizzata da una vena di umorismo popolare, da un’ondata di riso, da una dimensione gioiosa. Gesù che va per il mondo è dolce, mite e arguto, gira di terra in terra avvolto «da gioconda festosità». «Cammina cammina», recitano diversi racconti popolari nei quali i protagonisti si affrancano o tentano di liberarsi da miseria, fame, ingiustizie. Camminare significa conoscere, capire, cambiare, migliorare le proprie condizioni. Il vecchio camminante di cui parla il folklore è l’uomo di esperienza e di mondo, intesi come capacità d’interpretare e conoscere meglio il proprio luogo. La Calabria è attraversata da innumerevoli “vie dei canti” religiose. Santuari, chiese, grotte hanno costituito punto d’incontro e di convergenza per persone provenienti da posti lontani e separati. Il viaggio religioso, che coinvolgeva le popolazioni della regione, era erosione della vita monotona e afflitta, spazio di libertà, ricerca di salvezza e di guarigione. Camminare, però, comporta anche il rischio di perdersi, e perdersi può diventare una maledizione. Nelle fiabe ritorna il motivo dell’andare spersi per il mondo, che nelle diverse versioni appare legato a una maledizione, a una fuga da una condizione oppressiva, da un malo destino, alla ricerca di qualche persona o di una diversa fortuna. Si tratta di un andare fino in capo al mondo, dove, come si esprime altrove il folklore calabrese, «Dio non ha messo pietra», non ha poggiato piede e fondato vita. L’andare spersi per il mondo diventa così una sorta di condizione e di modo di essere dell’universo fiabesco di un’area geografica ben delimitata, e quasi la metafora di un destino di movimento e di erranza che racconta la geo-antropologia di una terra. Racconta storie di mobilità per catastrofi, di spostamenti, di arrivi, immigrazioni, partenze, emigrazioni, esodi di quella che Corrado Alvaro ha definito una terra in fuga, mobile, mobilissima.
Forse, come ci ricordano gli aborigeni australiani e i calabresi del passato, migrare e restare sono inseparabili e così quella che noi chiamiamo nostalgia non è legata necessariamente all’esperienza del viaggio. La domanda è: perché l’uomo è un animale nostalgico sia che viaggi sia che resti fermo? Non sarà la nostalgia la condizione naturale e culturale del sapiens? Non sarà un punto di arrivo dell’evoluzione biologica e culturale? Non sarà che l’inquietudine, la voglia di tornare, di andare, di essere altrove sono la condizione di noi umani e che forse questo, assieme al linguaggio e alla fantasia, ci ha reso diversi dagli altri animali fino a farci credere di non esserlo anche noi?
Non sarà il cammino quello che meglio racconta questa doppia ineludibile tendenza o necessità dell’uomo a migrare e a restare?
Per molti aspetti oggi il vero e sofferto camminare sembra essere quello di chi resta ancorato e fedele ai luoghi, quello di colui che vuole riconoscere e insieme cambiare gli antichi luoghi, offrendo voce, ascolto, ospitalità agli antichi e ai nuovi abitatori. Esiste, infatti, lo sradicamento totale di colui che resta fermo in posti che cambiano, di colui che si sente straniero nel posto in cui vive. Bisogna fare i conti con lo spaesamento, l’inquietudine, il dolore e la ricerca di colui che resta. Camminare, viaggiare, restare, tornare: cercare, riconoscere i luoghi, ricordare quelli di prima, accogliere gli altri, cambiare. Avere conoscenza della propria storia, ma anche della propria ombra, della propria nostalgia per non rifiutare quella degli altri, per riconoscere la loro diversità e la loro ricchezza. Camminare, viaggiare, restare: esserci ed essere insieme, sempre qui, sempre “dentro il luogo”, sempre “fuori luogo”. Non sarà che la nostalgia è davvero la natura dell’uomo e che egli sia condannato ad essa sia quando parte sia quando resta, e che il cammino, esteriore e interiore, potrebbe essere una via per cercare altre forme di abitare e di guardare il pianeta”
Questo testo, tratto da Nostalgia. Antropologia del tempo presente (Ed. Marietti1820, 2020), è stato rilanciato in questi giorni “di inquietudine e di spaesamento” dall’autore nella sua pagina facebook. Altri articolo di Vito Teti nell’archivio di Comune sono leggibili qui, quelli dedicati al camminare sono invece in questo link.
APPUNTAMENTI: 12 e 13 ottobre Giornata del camminare
Silvia Galiano dice
Andare dove non mi arrivi l’eco del tempo….