La crescita è una via senza uscita per il suo impatto sociale e ambientale. Aveva ragione Kenneth Boulding, secondo il quale chi crede che sia possibile una crescita infinita in un mondo finito o è un pazzo o è un economista. Abbiamo bisogno di pensare più percorsi di decrescita: mettere in discussione, ad esempio, l’estrattivismo, sostenuto dai governi neoliberisti come da quelli progressisti (nel Sud come nel Nord del mondo), cioè il saccheggio e la devastazione che nutrono l’accumulazione e la concentrazione del capitale delle transnazionali. Per il Nord significa anche pagare il debito ecologico e storico. La barbarie, per dirla con Rosa Luxemburg, sembra inarrestabile: servono concetti con i quali immaginare una vita degna per tutti e tutte adesso, come il buen vivir, che implica reciprocità e solidarietà tra individui e comunità, e ritorno a valori d’uso, in opposizione al concetto di accumulazione perpetua. “Bisogna operare una grande trasformazione culturale e storica – scrive Alberto Acosta -, passare da una concezione antropocentrica a una socio-biocentrica”
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di Alberto Acosta*
«Marx aveva detto che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia mondiale. Ma forse le cose si presentano in maniera completamente diversa. È possibile che le rivoluzioni siano, per l’umanità che viaggia su questo treno, l’atto di azionare il freno di emergenza» (Walter Benjamin).
Il pensiero dominante – proprio della globalizzazione capitalista – ci impedisce di immaginare un’economia che non miri alla crescita (…). Una corrente di pensiero a cui appartengono persone di ogni tendenza, da quella neoliberista a quella socialista. La realtà, tuttavia, indica che il superamento di tale visione è la grande sfida che ci troviamo di fronte oggi. Da un lato, è necessario riconsiderare la questione della crescita economica, liberandoci dal pericolo di un tracollo socioambientale di conseguenze inimmaginabili. E, dall’altro, è urgentissimo passare dall’estrattivismo legato alle richieste del capitale a una visione che ponga al centro la vita degna nel suo più ampio significato e che permetta la costruzione di società strutturalmente democratiche. Tale sfida mobilita tutte le potenzialità del pensiero critico come pure la capacità di inventiva e di creatività delle società, degli Stati e certamente delle organizzazioni sociali e politiche. Chiudere la porta a questo dibattito significherebbe chiudere la porta alla democrazia stessa.
LA CRESCITA ECONOMICA, UNA VIA SENZA USCITA
Per gran parte degli abitanti del pianeta è assai difficile immaginare un’economia senza crescita (…). Non mancano neppure interpreti del marxismo che, senza battere ciglio, sostengono l’impossibilità di arrestare la crescita. Significherebbe, affermano, frenare l’evoluzione delle forze produttive che, secondo tale visione, costituiscono la base dello sviluppo della civiltà e che, alla fine, con adeguati schemi di controllo e di distribuzione, risolveranno tutti i nostri problemi. Si ripete incessantemente che si deve crescere (…) per poter affrontare la questione della povertà, per assicurare lo sviluppo tecnologico e persino per risolvere i problemi ambientali
provocati dalla crescita stessa. (…).
I LIMITI AMBIENTALI DELLA CRESCITA ECONOMICA
In termini ambientali, si sono già superati i limiti mondiali di emissione di 400 parti per milione di CO2 (…), un chiaro avvertimento che non si può proseguire sulla stessa strada. La crescita materiale senza fine potrebbe culminare in un suicidio collettivo.
Gli effetti della crescita economica determinata dagli interessi del capitale sono dinanzi agli occhi di tutti: basta considerare l’impatto del riscaldamento dell’atmosfera, del deterioramento della fascia di ozono, della perdita di fonti di acqua dolce, dell’erosione della biodiversità agricola e silvestre, dell’elevata quantità di azoto nell’atmosfera, della degradazione dei suoli (…).
Esiste una sorta di ossessione per la crescita economica, come già opportunamente affermato nel 1971 da Herman Daly. Ancora prima, questo stesso economista, in linea con il pensiero del rumeno Nicholas Georgesku-Roegen, il grande pioniere dell’economia ecologica, aveva individuato le minacce incombenti, evidenziando la necessità di pensare a una decrescita economica e considerando la crescita come una specie di harakiri per l’umanità. (…). Si attribuisce a Kenneth Boulding, economista che guardava alla Terra come a una nave spaziale, sempre in sintonia con Georgesku-Roegen, l’esclamazione che «chi crede che sia possibile una crescita infinita in un mondo finito (…) o è un pazzo o è un economista».
Tuttavia, in determinate epoche, il richiamo a questi limiti biofisici, già evidenziati dal Rapporto del Club di Roma nel 1972, è stato visto come parte di una proposta imperialista. La vera intenzione, dicevano alcuni critici, sarebbe quella di limitare le possibilità di sviluppo dei Paesi del Sud globale. (…). Il nodo centrale per mettere in discussione la crescita permanente dell’economia è il fatto che la Natura presenta limiti che le economie non possono oltrepassare. Il cambiamento climatico, dovuto specialmente a un eccessivo consumo energetico e alla trasformazione dell’uso del suolo, è un’evidenza incontestabile. Ciononostante, il pensiero funzionale all’accumulazione di capitale si limita a proporre modi per trasformare “beni” e “servizi ambientali” in semplici elementi trasferibili, attraverso l’adozione di diritti di proprietà su tali funzioni. Mentre altri scommettono con fede cieca sui progressi tecnologici. (…). Ma forse il problema è più profondo, investendo la questione del senso stesso dell’umano in un tempo in cui la barbarie sembra inarrestabile, come avvertiva Rosa Luxemburg. (…). Oggi, con i limiti di sostenibilità sul punto di essere oltrepassati, (…) la proposta di una Dichiarazione Universale dei Diritti della Natura può aiutare a stabilire un quadro di riferimento per affrontare un compito che riguarda tutta l’umanità.
I LIMITI ECONOMICI E SOCIALI DELLA CRESCITA ECONOMICA
(…). Si è continuato a credere per decenni che la crescita fosse sinonimo di sviluppo. E tale visione resiste ancora oggi in ampie fasce della società e in quasi tutti i governi. Ma la constatazione che la crescita economica è solo un mezzo e non un fine a poco a poco si fa spazio. Amartya Sen, premio Nobel dell’economia, l’unico proveniente da un Paese “sottosviluppato”, è stato molto chiaro al riguardo: «(…). Non solo la crescita economica è più un mezzo che un fine; ma, per certi fini importanti, non è un mezzo particolarmente efficiente». Si potrebbe andare oltre e ricordare un economista, Jagdish Bhagwati, docente dell’Università di Columbia, il quale, già nel 1958, accennava al fatto che la crescita potesse addirittura produrre un effetto di impoverimento: «Il fatto di crescere non genera necessariamente condizioni positive, se tale crescita compromette la realtà sociale e la realtà ambientale di un Paese». Ciò indica che si può crescere senza raggiungere lo sviluppo e persino che si può crescere andando incontro al sottosviluppo. Un’esperienza comune al mondo impoverito. Quanti Paesi sono riusciti a sostenere per tempi relativamente lunghi significativi tassi di crescita economica? Pochi, senza alcun dubbio. E, di questi pochi, quanti si sono sviluppati? Ancora meno, molti meno. Senza contare che in realtà il cattivo sviluppo prevale anche tra i Paesi che si considerano sviluppati. (…).
Si può affermare che la crescita economica provocata dalla voracità del capitale, che accumula producendo e speculando, poggia su basi di crescente disuguaglianza strutturale. E ciò forse spiega gli elevati livelli di frustrazione e di infelicità esistenti nelle società opulente. Ampliando l’orizzonte, si constata che sul pianeta l’inequità sociale, così tipica del capitalismo, in quanto civiltà della disuguaglianza, è una questione che si pone a livello globale e persino nelle economie considerate di successo.
Basta considerare le cifre relative alla diseguale distribuzione della ricchezza: le 85 persone più ricche del mondo presentano redditi pari a quelli della metà più povera della popolazione mondiale (…). Ne deriva la necessità di un cambiamento radicale dell’organizzazione stessa dell’economia. (…). La crescita economica, trasformata in un feticcio a cui rendono omaggio i poteri del mondo e ampi segmenti della popolazione, deve essere smascherata e disarmata. (…).
I DIBATTITI SULLA POST-CRESCITA
(…). Non si tratta di chiedere ai Paesi impoveriti di mantenere la propria situazione di povertà e di miseria in maniera che i Paesi ricchi possano conservare i propri insostenibili livelli di vita. In nessun modo. Ciò che deve richiamare l’attenzione nel Sud è il fatto di non cercare di replicare stili di vita socialmente ed ecologicamente insostenibili.
È pertanto ugualmente urgente affrontare in maniera responsabile il tema della crescita economica nei Paesi “in via di sviluppo”, cosicché risulta perlomeno opportuno differenziare una crescita “buona” da una “cattiva” (…). Da un lato, i Paesi impoveriti e strutturalmente esclusi dovranno perseguire opzioni di vita degna e sostenibile, al di fuori di una riedizione caricaturale dello stile di vita occidentale. Dall’altro, i Paesi “sviluppati” (…) devono cambiare il loro modo di vita che mette in pericolo l’equilibrio ecologico mondiale: una prospettiva rispetto a cui sono anch’essi, in un certo modo, sottosviluppati o “malsviluppati” (…). E, allo stesso tempo, devono assumersi la responsabilità di avviare una restaurazione globale dei danni socioambientali provocati; in altre parole, devono pagare il proprio debito ecologico e anche il proprio debito storico. (…).
Tale evoluzione alternativa dovrebbe racchiudere, senza alcun dubbio, altre logiche economiche. Questa nuova economia dovrà essere ripensata a partire dalla ricerca e dalla costruzione di alternative secondo una visione olistica e sistemica, plasmata nella prospettiva dei Diritti Umani e dei Diritti della Natura. (…). Urge, allora, discutere in maniera seria e responsabile di decrescita economica, iniziando dal Nord globale (la crescita stazionaria non basta), accompagnandola con il post-estrattivismo nel Sud globale.
SUPERARE I LIMITI COLONIALI DELL’ESTRATTIVISMO
L’estrattivismo è una modalità (…) che permette di spiegare il saccheggio, l’accumulazione, la concentrazione, la distruzione e la devastazione colonialista e postcolonialista, come pure l’evoluzione del capitalismo fino ai nostri giorni. (…).
Con la conquista e la colonizzazione dell’America, dell’Africa e dell’Asia, ha iniziato a strutturarsi l’economia mondiale: il sistema capitalista. Uno degli elementi fondanti della civiltà capitalista è stato lo sviluppo e il consolidamento della modalità di accumulazione estrattivista, determinata dalle esigenze dei centri metropolitani del capitalismo nascente. Alcune regioni si specializzarono nell’estrazione e nella produzione di materie prime, cioè di beni primari, mentre altre assunsero un ruolo manifatturiero, normalmente utilizzando le risorse naturali dei Paesi poveri o impoveriti. (…).
L’estrattivismo, da allora, è stato una costante nella vita economica, sociale e politica di molti Paesi del Sud globale. Così, con diversi gradi di intensità, tutti i Paesi dell’America Latina sono attraversati da queste pratiche: parlare di estrattivismo è diventato comune nel quotidiano di questi Paesi, i quali attraversano un processo di intervento sempre più brutale da parte delle imprese transnazionali. (…).
È necessario allora dibattere le visioni estrattiviste dei governi neoliberisti come di quelle dei governi progressisti, i quali, nella pratica, spingono in avanti questa modalità di accumulazione, anche nel caso in cui, a livello teorico, riconoscono la necessità di un suo superamento. Il neoestrattivismo dei governi progressisti presenta alcuni aspetti recuperabili, come un miglior controllo da parte dello Stato sulle attività estrattive e una maggiore partecipazione alle entrate minerarie o petrolifere, ma non si distanzia in alcun modo da una modalità di accumulazione dipendente, anche di radice colonialista.
Superare l’estrattivismo (…) è una condizione essenziale per uscire dal sottosviluppo. (…). Si richiede una transizione pensata chiaramente e adottata saldamente dalla società. Deve essere chiaro che mantenendo o, peggio ancora, consolidando l’estrattivismo, non si potrà sfuggire a questo complesso dilemma di società ricche di risorse naturali ma condannate a un impoverimento pressoché inevitabile.
Pertanto, occorre considerare un punto chiave: l’immediata decrescita pianificata dell’estrattivismo; e, sulla stessa linea, il superamento del concetto stesso di sviluppo, facendo spazio ad alternative di sviluppo come quelle che propone il buen vivir o sumak kawsay. (…).
UN DIBATTITO CONDIVISO
(…). Non si tratta (…), secondo Enrique Leff, solo di “ecologizzare” l’economia: la soluzione al problema della crescita non è solo la decrescita ma la decostruzione e la transizione verso una nuova razionalità economica. (…). Bisogna uscire dalla società della crescita, è questo il primo punto. Dinanzi a questa sfida, affiora con forza la necessità di ripensare la sostenibilità in funzione della capacità di carico e della resilienza della Natura. (…). Il superamento accelerato dei limiti della Natura a causa degli stili di vita antropocentrici, particolarmente esacerbati dalle esigenze di accumulazione del capitale, è sempre più noto e insostenibile.
(…). Anziché mantenere il divorzio tra la Natura e l’essere umano, bisogna favorirne il reincontro, stringere il nodo gordiano della vita, rotto da una concezione di organizzazione sociale predatrice e di certo intollerabile. La Natura stabilisce i limiti e la portata della sostenibilità e della capacità di autorinnovamento dei sistemi da cui dipendono le attività produttive. Vale a dire che, se si distrugge la Natura, si distrugge la base stessa dell’economia. Concretamente, l’economia deve abbandonare tutta l’impalcatura teorica che, secondo José Manuel Naredo, (…) ha separato completamente il discorso economico dal mondo fisico. (…). Ciò porta a evitare le azioni che eliminino la diversità sostituendola con l’uniformità. Che è proprio ciò che è alla base, per esempio, dei grandi progetti di estrazione mineraria o delle monocolture, attività che, come riconosce Godofredo Stutzin, provocano uniformità «(…) producendo squilibri sempre maggiori». (…).
UN COROLLARIO
Avere di più non rende più felici le persone. In questa prospettiva, non conta quante cose produce una persona nella sua vita, ma come le cose di cui dispone l’aiutano ad avere un migliore livello di vita. Ciò significa che bisogna superare questa religione dominante della crescita economica, dell’accumulazione incessante di beni materiali e della logica stessa del progresso che da molto tempo – forse da più di cinquecento anni – sta nutrendo le basi dell’economia capitalista.
Tale questione non si risolverà dal giorno alla notte. Bisogna costruire, come raccomanda ripetutamente Eduardo Gudynas, transizioni plurali, chiare e precise, a partire da orizzonti utopici come può essere il buen vivir o sumak kawsay, per quanto sarebbe meglio parlare di “buenos convivires” (forme plurali di buona convivenza, ndt), come suggerisce Xavier Albó. Il buen vivir, in quanto proposta in costruzione e libera da pregiudizi, apre la porta alla possibilità di formulare visioni alternative di vita in armonia con la Natura, nel segno della reciprocità, della relazionalità, della complementarità e della solidarietà tra individui e comunità, in opposizione al concetto di accumulazione perpetua, e sulla base del ritorno a valori d’uso. Senza dimenticarne e ancor meno manipolarne le origini ancestrali, la proposta può servire da piattaforma per discutere, concertare e applicare soluzioni dinanzi ai devastanti effetti dei cambiamenti climatici a livello planetario e ai crescenti fenomeni di emarginazione e di violenza sociale nel mondo. E può anche contribuire alla definizione di un cambiamento di paradigma in mezzo alla crisi che devasta molti dei Paesi un tempo dominanti.
In questo senso, la costruzione del buen vivir, come parte di processi profondamente democratici, può essere utile per individuare risposte globali alle sfide che l’umanità è chiamata ad affrontare. Come è facile comprendere, impostazioni di questo tipo vanno oltre qualunque correzione strumentale di una strategia di sviluppo e di crescita economica permanente. (…). Si richiede un discorso controegemonico che sovverta quello dominante (…) generando al tempo stesso nuove regole e logiche di azione. (…). Di conseguenza, il buen vivir o sumak kawsay, aprendo la porta alla possibilità di transitare verso una nuova civiltà, esige un’altra economia. Questa non sorgerà dal giorno alla notte e tanto meno per iniziativa di leader illuminati. Si tratta di un lavoro paziente e deciso di smantellamento di vari feticci e di costruzione di cambiamenti radicali, recuperando i valori, le esperienze e soprattutto le pratiche esistenti nel mondo andino e amazzonico, nutrendosi di quelle visioni e quegli esperimenti in sintonia con la prassi della vita armoniosa e della vita in pienezza che si sviluppano in tutto il mondo.
Ne deriva, in sintesi, la necessità di considerare i seguenti aspetti. È evidente che la crescita economica non può essere l’obiettivo di una economia propria di una civiltà diversa da quella capitalista. (…). Si deve accettare che la crescita economica permanente in un mondo finito è una follia. Bisogna disarmare, allora, tanto l’economia quanto la società della crescita. (…). La de-mercificazione della Natura, come parte di un re-incontro cosciente con la Pachamama, è una questione cruciale. Senza giri di parole, l’economia deve essere subordinata all’ecologia. (…). Gli obiettivi economici devono essere sottomessi alle leggi di funzionamento dei sistemi naturali, senza perdere di vista il rispetto per la dignità umana e assicurando la qualità della vita di tutte le persone.
E la de-mercificazione riguarda anche i beni comuni (…). Questi beni possono consistere in sistemi naturali o sociali, palpabili o intangibili (Wikipedia, per esempio), diversi tra loro ma accomunati dal fatto di essere ereditati o costruiti collettivamente. Il decentramento è un altro degli aspetti essenziali dell’altra economia. In molti ambiti, come in quello della sovranità alimentare o energetica, per esempio, si richiedono risposte-azioni più vicine alla gente. Sarà cioè a partire dalle proprie comunità, dai propri territori (rurali e urbani), che bisognerà trovare le risposte più adeguate; risposte che spesso sono già presenti da molto tempo e che non hanno capitolato ai dettami capitalisti.
Tale azione, come parte di un esercizio di riterritorializzazione culturale, è orientata a recuperare il protagonismo e il controllo delle persone, cioè delle comunità, nel processo decisionale, per rafforzare la partecipazione e i processi locali. La distribuzione equa del reddito e la ridistribuzione della ricchezza (anche del lavoro, che dovrà essere oggetto di un processo di de-mercificazione) è un passo fondamentale per la costruzione di un’altra economia, orientata verso il buen vivir. Se deve essere subordinata ai dettami della Terra, l’economia (non solo il capitale) deve essere sottomessa alle esigenze della società umana, che non solo è parte della Natura, ma che è Natura. Ciò esige una profonda ridistribuzione della ricchezza e del potere, la costruzione di società basate sull’uguaglianza e su un’equità plurale. Non è in gioco solo la questione della lotta di classe, cioè lo scontro capitale-lavoro. È in gioco il superamento effettivo delle disuguaglianze etniche, sociali, economiche, politiche, di genere e intergenerazionali.
La democratizzazione dell’economia, di un’altra economia, completa quanto detto. È indispensabile che il processo decisionale in ambito economico, a tutti i livelli, sia sempre più partecipativo e deliberativo. Ciò implica assicurare tanto i diritti dei produttori quanto quelli dei consumatori. (…).
In sintesi, come parte di ununa grande trasformazione che dovrà essere eminentemente culturale, si richiede una visione che superi il feticcio della crescita economica, che favorisca la demercificazione della Natura e dei beni comuni, il decentramento e il cambiamento delle strutture di produzione e di consumo, la ridistribuzione della ricchezza e del potere, come fondamenti di una strategia di costruzione collettiva e costante di un’altra economia, indispensabile per un’altra civiltà. (…). Questo compito implica azioni locali, nazionali e internazionali, che esigono un orizzonte utopico di futuro, ma che richiedono, ugualmente, risposte a corto e medio raggio. Un tema centrale da considerare è che la grande maggioranza della popolazione, condannata dal punto di vista sistemico all’esclusione e alla povertà, non riflette su tali questioni. Al contrario, aspira permanentemente a vivere secondo gli stessi livelli di consumo dei gruppi più agiati a livello mondiale e nazionale, senza chiedersi se ciò sia possibile e pure conveniente.
Ricordiamo che la società, al Nord e al Sud, è bombardata da messaggi che predispongono al consumismo. (…). Bisogna operare una grande trasformazione storica, passando da una concezione antropocentrica a una (socio)biocentrica (…). Questa è la grande sfida dell’Umanità, se non si vuole mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’essere umano sulla Terra. In questa prospettiva, bisogna consolidare e ampliare la portata dei Diritti Umani e dei Diritti della Natura, considerati come punto di partenza per la costruzione democratica di società democratiche, cioè per assicurare una maggiore ed effettiva partecipazione cittadina e comunitaria.
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