Cosa sappiamo delle foreste? Al di là del fascino, soprattutto letterario, che evocano nell’immaginario, delle foreste in realtà parliamo e sappiamo poco. Sappiamo, forse, che andrebbero salvate a ogni costo e che hanno pagato più di altri ambienti naturali una certa rovinosa e mitica idea di “progresso”: ogni anno ne spariscono circa 10 milioni di ettari (media 2015-2020). Per quel che riguarda il grande patrimonio italiano, che per fortuna ricopre oltre un terzo del territorio ma è in prevalenza di proprietà privata, permane una enorme potenzialità, ma – come scrive in questo interessante articolo Bartolomeo Schirone, docente di Selvicoltura e Assestamento forestale presso l’Università della Tuscia – nel momento più favorevole per i boschi italiani, circa un secolo fa, si è deciso di voltare pagina e tornare ad approcci gestionali che è generoso definire primitivi. Oggi che il cambiamento climatico è ormai evidente, le nuove conoscenze sul ciclo dell’acqua e dei nutrienti in rapporto alla struttura e all’età del bosco, l’incremento costante del rischio idrogeologico e la consapevolezza dei numerosi servizi ecosistemici offerti dalle foreste, sarebbe essenziale abbandonare ogni visione produttivistica e riprendere la strada intrapresa un secolo fa privilegiando la dimensione conservativa

Nei dialoghi di Timeo e Crizia, scritti da Platone tra il 365 e il 347 a.C., ci si domanda che fine abbia fatto il suolo greco e perché delle montagne sia rimasta solo la nuda roccia. La risposta è chiara: il suolo è finito in mare a causa del disboscamento.
Quella di Platone è forse la prima testimonianza esplicita di un problema che si potrebbe dire sia noto da sempre. La distruzione delle foreste non si esaurisce con la perdita di una copertura arborea, ma comporta una infinita serie di altri problemi, dal disseccamento delle sorgenti al cambiamento climatico fino all’impoverimento delle popolazioni e al declino degli Stati.
È noto, infatti, che, anche facendo riferimento alla sola risorsa legno, il potere marittimo dell’antica Atene entrò in crisi quando la polis non ebbe più la capacità di potersi approvvigionare direttamente del legname necessario per costruire le proprie triremi così come la talassocrazia britannica cominciò a cedere il passo a quella statunitense ben prima delle guerre mondiali ossia quando gli americani cominciarono a costruire i velocissimi clippers per il trasporto delle spezie e altre merci attraverso gli oceani, battendo il monopolio delle rotte detenuto fino ad allora dagli inglesi.
La causa della débâcle dell’Union Jack va cercata anch’essa nelle foreste: negli attrezzatissimi cantieri inglesi non si potevano costruire vascelli in grado di competere con i clippers perché sul suolo britannico non si trovavano più querce con tronchi di adeguate dimensioni che, invece, abbondavano in America e si acquistavano a prezzi molto contenuti.
In realtà, i primi disboscamenti iniziano intorno al 7000 a.C. con la comparsa dell’agricoltura e dell’allevamento che contraddistinsero la transizione neolitica. Ma da subito si avverte anche l’esigenza di proteggere i boschi regolamentandone il prelievo legnoso.
La prima legge forestale nota, la famosa Lex luci spoletina risale, infatti, al III secolo a.C. e, anche se scritta in latino arcaico, la si deve agli Umbri. In essa compare l’introduzione di una sanzione pecuniaria per chi danneggia i boschi accompagnata dall’obbligo di sacrificare un bue a Giove. Si tratta di un aspetto della norma abbastanza interessante perché, al fine di assicurare maggiore protezione a determinati boschi, li si considera “sacri”. La condizione di sacralità della foresta risentiva della convinzione, radicata nella religione dell’epoca, che almeno in alcuni boschi dimorassero dei e ninfe.
Non si tratta, quindi, di un mero espediente per rafforzare il valore della legge, ma di un elemento che si ritrova e quasi regge tutta la successiva legislazione romana dove luci e nemora (i boschi sacri) sono le più importanti delle quattro categorie istituite dai romani per classificare le foreste. La necessità di proteggere in qualche modo le foreste dalla distruzione si avverte in tutta la normativa forestale dei secoli che seguono, trovando svolte decisive nell’Ordonnance sur le fait des eaux et des forêts promulgata da Colbert nel 1669 e base di tutta la regolamentazione forestale francese, ma anche nell’italiana Legge Serpieri sul vincolo idrogeologico (Regio Decreto-Legge 30 dicembre 1923, n. 3267. Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani).
La Scuola forestale italiana ha sempre avuto come riferimento questi principi e ha cercato di coniugare gli aspetti produttivi (o estrattivi) del bosco con la conservazione delle cenosi. Anzi, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, è stato massimo l’impegno per migliorare il patrimonio forestale nazionale sia in termini quantitativi che qualitativi.
L’impresa era tutt’altro che facile considerando le condizioni di grande, a volte estrema, povertà delle popolazioni dell’epoca che dal bosco traevano parte del loro sostentamento. Ma va sottolineato che l’apparato tecnico investito dell’incarico ebbe protagonisti di elevato spessore culturale: funzionari e specialisti dello Stato che associavano al dominio delle discipline forestali una profonda conoscenza delle scienze naturali. I risultati sono stati di indiscusso rilievo perché da allora, complice l’abbandono delle aree interne e la rapida industrializzazione del Paese nel secondo dopoguerra, il patrimonio forestale nazionale è aumentato in superficie e in volume.
Allo stesso tempo, occorre considerare che siamo (o eravamo) sulla buona strada, ma ancora abbastanza lontani dagli standard dei grandi Paesi europei e, soprattutto, dalle stesse potenzialità delle nostre foreste. Eppure, nel momento più favorevole per i boschi italiani, si è deciso di voltare pagina e tornare ad approcci gestionali che è generoso definire primitivi. Per di più oggi che il cambiamento climatico ormai evidente, le nuove conoscenze sul ciclo dell’acqua e dei nutrienti in rapporto alla struttura e all’età del bosco, l’incremento costante del rischio idrogeologico e la consapevolezza dei numerosi servizi ecosistemici offerti dalle foreste, avrebbero consigliato di proseguire sulla strada intrapresa un secolo fa e di privilegiare una gestione forestale impostata su una visione più ampia che includesse anche la dimensione conservativa.
L’ideale sarebbe stato, e nei limiti del possibile sarebbe ancora, quello di distinguere nettamente le foreste da lasciare alla libera evoluzione dagli ambiti territoriali in cui praticare la selvicoltura. Ma, e soprattutto, impostare la gestione forestale sulle basi della bioeconomia secondo Georgescu-Regen, che forse trova nelle foreste le condizioni migliore per la sua applicazione. Si tratta, infatti, di sistemi naturali in cui è abbastanza facile verificare l’aumento di entropia ovvero il manifestarsi di processi degradativi.
Invece, anche la gestione forestale è stata piegata al dilagante modello di sviluppo nato dal prevalere della finanza sull’economia. Il Testo Unico in materia di Foreste e Filiere forestali (D. L.vo 03/04/2018 n. 34), il cosiddetto TUFF, introdotto dal Governo Gentiloni, esprime una visione esclusivamente produttivistica del bosco. L’articolato della legge ruota tutto intorno alla cosiddetta “gestione attiva” che, al di là dei funambolismi semantici utilizzati per equipararla alla “gestione sostenibile”, di fatto si riferisce fondamentalmente ai tagli di utilizzazione (art. 3, Definizioni).
Peraltro, l’intero impianto del TUFF sembra studiato per favorire il governo a ceduo del bosco, che costituisce a base per orientare la gestione verso la produzione di biomasse a scopo energetico. Non per nulla, dalla pubblicazione della legge, i prelievi legnosi dalle foreste italiane risultano in aumento. Insomma, l’esatto opposto di quanto sarebbe stato auspicabile. Le cause di questa involuzione?
Al netto di fenomeni corruttivi o di malafede, che ci si augura siano da escludere, sicuramente la sempre minore cultura ecologica e selvicolturale che impedisce la formulazione di proposte di intervento più raffinate e meno impattanti e l’ingiustificata imitazione di modelli gestionale di stampo nordeuropeo che nulla hanno a che fare con le nostre realtà ambientali e forestali. Il viatico per il futuro delle foreste italiane non è dei migliori e impone una riflessione urgente sui passaggi necessari per modificare la rotta.
- Professore ordinario di Selvicoltura e Assestamento forestale presso l’Università della Tuscia (Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali, DAFNE) Presidente della Società Italiana di Restauro Forestale.
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