Oizumi è una cittadina giapponese, dove vivono migliaia di migranti brasiliani. Dicono sia “un paradiso carioca”, ma media e politica, qui come altrove, ormai sono solo agenzie pubblicitarie. Un foto-racconto
di Alessandro Di Ciommo
Lo ammetto mi piace il calcio, ma non vado in curva, non mi abbono alle tv e se la partita mi annoia non la guardo. Se mi diverte, invece, resto volentieri incollato davanti alla televisione, magari dentro qualche locale sorseggiando una birra fresca. Le partite di questi mondiali di calcio mi hanno annoiato. Speravo tanto nel Brasile, ma sono rimasto deluso dal suo gioco, noto per essere creativo e divertente. Mentre seguivo la Coppa del mondo da un osservatorio particolare, il Giappone, mi sono imbattuto in un servizio sulla televisione nipponica nazionale che raccontava di un piccola città non molto distante da Tokyo definita “un paradiso carioca”.
Oizumi, questo il suo nome, dai primi anni Ottanta ha visto arrivare migliaia di migranti brasiliani chiamati dalle fabbriche locali per la manodopera operaia. Molti di loro hanno il doppio passaporto perché nel dopoguerra tantissimi giapponesi si erano trasferiti in America alla ricerca del benessere. Il servizio in tv raccontava di un paradiso interculturale, le immagini mostravano sfilate carnevalesche in una cittadina in fermento culturale, ma nascondevano la triste realtà, una crisi economica importante precipitata sulla vita delle persone comuni. Media e politica si guardano bene dal raccontare il Giappone che non ti aspetti, abbandonato, isolato con forti contrasti sociali.
Oizumi si trova a circa centotrenta chilometri dalla Sky Tree di Tokyo, l’immensa torre delle telecomunicazioni che sorge a Sumida, quartiere speciale della capitale, ed è la torre più alta del Giappone, l’orgoglio di una paese tecnologicamente avanzato e iperconsumista che presto ospiterà le Olimpiadi. Sono partito di mattina presto per vedere la partita di calcio Brasile contro Costa Rica, insieme ai i brasiliani, nel centro sportivo da loro creato diversi anni fa. Per arrivare ci vogliono tre ore e un paio di treni, il tutto condito da molta umidità, un viaggio non da paese che vanta il miglior trasporto pubblico del mondo. La giornata certo non aiutava ad apprezzare l’oasi di cui si sente tanto parlare, ma quello che chiunque avrebbe subito notato è che il “paradiso carioca” è soltanto un cartellone pubblicitario.
A Oizumi ho visto soprattutto locali e centri commerciali chiusi, negozi nella via principale abbandonati, strade deserte, un servizio di trasporto pubblico inesistente, volti tristi. Ho fatto il giro della città fotografando i brasiliani che vivono e resistono in questo isolamento e in serata ho visto insieme ad alcuni di loro la partita. Tutti avevano la maglietta verdeoro della nazionale e hanno tifato e festeggiato la vittoria, ma in una condizione per alcuni versi surreale: nel corso della partita erano controllati a vista, ogni quindici minuti passava davanti al centro una pattuglia della polizia locale che non voleva rumori e urla, avrebbero disturbato il nulla che circonda il centro sportivo e la città.
L’incontro tra persone di origine brasiliana e giapponese sembra solo aria fritta da vendere ai turisti. Il consumismo che fatica ad alimentarsi ha lacerato il tessuto sociale e riempito di grigio le città. Ma lo spettacolo (ovvero la mercificazione dello sport) e i suoi profitti devomo andare avanti, ci sono da preparare le Olimpiadi del 2020 a Tokyo, pensate per scacciare il fantasma nucleare di Fukushima e quello altrettanto inquietante di una crisi mai così profonda.
Di seguito, alcuni ritratti dei cittadini brasiliano-nipponici che vivono e lavorano nel centro commerciale quasi completamente abbandonato (sopravvive l’agenzia di viaggi brasiliana e poco altro), e alcuni scatti della partita….
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(foto di A. Di Ciommo)
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