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Secondo John Berger, “quando riteniamo che una fotografia sia significativa, è perché le prestiamo un passato e un futuro”. In Borgate. Appunti di viaggio – Edizioni Ponte Sisto, 25 euro, 168 pag., 108 ph., con saggi di Carlo Cellamare e Maurizio Garofalo – Pasquale Pas Liguori propone, con umiltà e profondità, il passato/presente di una Roma complessa, ferita, ma in grado di creare momenti di riscatto e ristoro collettivo, e il futuro di una “città di sotto” che potrebbe fare della cura, e in alcuni casi ha già cominciato, un valore comune.
Le diverse mostre fotografiche e gli incontri (come quello con Roberto Sardelli, leggi Ripartire dai piccoli gruppi) che hanno accompagnato la nascita di questo prezioso volume mostrano che è possibile esplorare e raccontare la periferia in modo diverso. La scelta di mettere al centro di questo reportage un momento particolare, la mattina della domenica invernale, quando la densità umana è la più elevata possibile con edifici pieni di vite e piazze e strade deserte, offre uno sguardo unico sulla città. Per una volta la frenesia di chi pensa al territorio come una merce viene messa da parte. Per questo il racconto finale che emerge sembra già un tentativo dal basso con cui ripensare la relazione tra comunità e periferie.
Per dirla con la campagna Un mondo nuovo comincia da qui, “una città nuova comincia da qui”, da uno sguardo differente sulle e dalle borgate. Che si tratti di un libro importante e speciale lo dimostra, infine, la scelta dell’autore di destinare una percentuale del prezzo di copertina all’avventura editoriale di Comune e di aderire così alla campagna di sostegno 2017 (i lettori romani interessati a prenotare una copia – magari come regalo di Natale – possono scrivere a ).
Di seguito, l’introduzione e alcune fotografie del libro, giunto dopo poche settimane già alla seconda ristampa.
di Pasquale Liguori*
Il mio viaggio nelle borgate nasce dal desiderio di esplorare una Roma autentica, non appariscente. Nel muovere i primi passi, mi sono ispirato a un espediente linguistico condotto sul sostantivo borgate. Immaginandolo composto col suffisso anglosassone -gate, l’ho dissociato dall’accezione comunemente scandalistica (come, appunto, in Watergate) per avvicinarlo al significato letterale di “porta, varco”, meglio ancora di “uscita” fotografica nella parte più viva della città.
Vivo da molti anni nella Capitale, dove mi sono trasferito per motivi professionali. La routine lavorativa ha lungamente contribuito a tenermi distante dal proposito di un’esperienza urbana più consapevole. Le continue occasioni aziendali di rappresentanza in ambienti esclusivi e patinati hanno determinato quella percezione superficiale della città, simile a quella emozionata e stereotipata del turista “mordi e fuggi”. Un’immagine perlopiù associata all’imponenza delle sedi istituzionali politiche e religiose, alla maestosità archeologica, al prestigio storico e architettonico di monumenti, palazzi, piazze in scenari spettacolari e di rara bellezza.
Della Roma più quotidiana, del suo assetto abitativo conoscevo ben poco. E quel poco lo avevo assorbito attraverso la letteratura o il racconto della cronaca, non certo per aver avuto concrete occasioni di contatto locale nei luoghi e nei territori. Nemmeno confortava il constatare la conoscenza tutto sommato approssimativa del territorio da parte degli abitanti, in fondo esperti della propria microcittà tra le mille di cui si compone Roma.


Importanti cambiamenti hanno accelerato il mio approccio al territorio e stimolato, quindi, la ricerca fotografica.
Ho sempre amato inoltrarmi nella periferia. Di quella napoletana, dove mi sono formato, serbo il valore, l’identità e l’insegnamento di vita in situazioni anche critiche.
Ammiro la periferia per la sua capacità di “frontiera”, di adattamento, cambiamento e proposta. La amo quando riesce a prendersi cura di sé. Soprattutto, quando si oppone all’incuria e resiste al disinteresse generale.
Le indagini urbanistiche più recenti e rilevanti configurano Roma come città-territorio, estesa su un’area molto vasta e molto articolata al suo interno, dove le persone vivono senza riferirsi solitamente al centro consolidato. È improponibile, infatti, l’accezione di periferia riferendola alla sua separazione fisica dal centro cittadino formale in un contesto figlio del blob edilizio e di pianificazioni inefficaci o disattese cui la città è stata sottoposta nel corso degli ultimi decenni.

In tale complessità, l’interesse dell’indagine fotografica è caduto sui luoghi dove il regime fascista istituì le cosiddette borgate “ufficiali”, progettate quali entità separate, volutamente distanti dal centro tradizionale e che oggi risultano essere invece aree costitutive della città.
Tullio De Mauro in più occasioni sottolineava il significato negativo che la popolazione romana, compresi gli abitanti delle borgate, associava al termine borgata. Questo perché esso era legato sia alle condizioni di vita precarie dell’epoca sia alla connotazione negativa conferita all’abitante della borgata: il borgataro.
I dolorosi e spesso scandalosi aspetti storici, politici, organizzativi alla base della nascita delle borgate sono tuttora oggetto di ricostruzioni e studi approfonditi da parte degli esperti. Intanto, quei luoghi dopo le tante trasformazioni subite sono ora pezzi importanti di Roma.
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Eppure, nel viaggio che ho effettuato ho continuamente colto lo spirito geneticamente informale di questi luoghi pur se inglobati nel denso tessuto urbanizzato.
Il contatto fisico con la borgata ha significato effettuare lunghi sopralluoghi, parlare con chi ci vive, constatare il livello di multiculturalismo e di servizi, percorrerla nelle sue strade, attraversarla nei condomini, scrutarla nel rapporto con gli spazi circostanti, osservarla nei suoi spazi e nei suoi tempi.

Ho scelto quindi un criterio di ripresa in cui si condensassero gli elementi decisivi per la progettualità di indagine: raccontare dimensioni e strutture della borgata contemporanea, registrando nello stesso momento l’umanità ivi sottesa.
Avevo bisogno dunque di un momento particolare, in un giorno specifico dove la densità umana fosse la più elevata possibile con edifici pieni di vite da una parte, e dall’altra piazze e strade praticamente deserte.
Spero di esser riuscito a evitare la trappola della curiosità fine a se stessa, pettegola e grottesca, che porta dritto a rese languide e retoriche della periferia coi suoi problemi.
Il degrado è sì ritratto, e anche senza sconti, ma non è l’elemento centrale del racconto: nel mirino sentivo arrivare distinta l’energia espressa dalle opportunità.
La domenica invernale, alle prime luci, è un momento di ristoro collettivo. Ed è poi il momento di massima presenza abitativa di quasi tutti gli abitanti della borgata stessa (anche chi appena rientrato dalla notturna visceralità del sabato).
Una fase intermedia tra sonno, recupero almeno parziale da stanchezze e tensioni, risveglio e ferite leccate e, se possibile, la predisposizione più indulgente a riesaminare i luoghi e il contesto in cui si vive. Avendo attenzione per se stessi, in fin dei conti.
Nel momento di questi scatti, gli antagonismi, i conflitti, i dolori e i razzismi risultano sfocati, persino neutralizzati. Predomina la dignità dei singoli e possibilmente quella collettiva, in un modello abitativo che permane certamente complesso.
Nello stesso momento, geometrie, spazi della convivenza visibili nella loro essenziale nudità, sembrano chiedere una parte di beneficio dalla potente carica energetica e affettiva di quei momenti prima che ritorni a dissiparsi, sfilacciata, nel ritmo della competizione neoliberista del vivere o sopravvivere.
Esiste, e si è avvertita, un’identità ancora salda, confluente in una somma di esperienze tale da proteggere persino dalle tentazioni fagocitarie della gentrification che ha snaturato altre, vicine periferie.
Le fotografie qui raccolte sono tratte da una più ampia ricerca che continua a essere effettuata sul territorio. Esse costituiscono un tributo a chi vive i luoghi ritratti e, al tempo stesso, un invito a non dimenticare e una proposta alla cura di un valore comune.
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