Le statistiche ufficiali sul Covid registrano in Messico ormai oltre 20 mila morti. Il collasso del sistema sanitario ha provocato angoscia e disperazione. Alcuni sono morti andando da un ospedale all’altro, mentre cercavano di essere ricoverati. Le multinazionali e i governi continuano a dire di voler recuperare una qualche forma di normalità, come fa anche molta gente. Ma la macchina si inceppa e i consumi che la fanno muovere sono crollati. Secondo Gustavo Esteva, però, è aumentato anche il peso politico della gente e si sono intaccate anche vecchie strutture patriarcali di potere radicate nelle comunità. Invece di isolarsi e separarsi, le persone si sono unite, hanno ricominciato a produrre il proprio cibo e a rifornirsi dei prodotti mancanti attraverso lo scambio con i villaggi vicini. Dove è piovuto, tutti si sono messi a seminare, saranno meno colpiti dalla scarsità in arrivo e dall’aumento brutale dei prezzi dei generi di prima necessità che già si sta manifestando. Anche nei grandi insediamenti urbani, come Città del Messico o New York, è iniziato qualcosa di simile. Coloro che erano stati ridotti a individui e non avevano nulla che si potesse chiamare comunità, hanno cominciato a crearla, persino con i vicini a cui non rivolgevano nemmeno il saluto, sebbene fossero vissuti per anni a pochi passi di distanza. La dimensione locale ha recuperato la sua importanza. Si è trattato di abitare di nuovo il luogo in cui si vive, al di là della mera residenza. È rinato il quartiere, lo si è costituito o lo si è conquistato. Si sono moltiplicati gli orti urbani e si è recuperato il costume di cucinare insieme. Il governo insiste con i suoi megaprogetti, ma una crisi generalizzata apre la strada a una ricostruzione della società, scriveva Illich mezzo secolo fa, descrivendo dettagliatamente quello che sta succedendo oggi. C’è chi piange sulle rovine di ciò che è andato perduto. Si rimpiangono pratiche, modi di fare o istituzioni. Ma ormai siamo in un’altra epoca. Non c’è spazio per l’ottimismo né per l’illusione, ma è venuta l’ora di nutrire speranze

È il momento di avvicinarsi, non di mantenere le distanze. E questo può cambiare tutto. In molte comunità si sono formati piccoli gruppi per riflettere sul virus. Fra dicerie e istruzioni dall’alto, è emerso un ampio spettro di reazioni, da chi rispondeva con un’alzata di spalle a chi era terrorizzato. A poco a poco ci si è trovati d’accordo su alcune cose e si è cominciato a prendere decisioni, che alla fine sono approdate alle assemblee. È aumentato il peso politico della gente. Invece di isolarsi e di separarsi, si sono uniti. Questo impulso ha intaccato vecchie strutture patriarcali di potere radicate nelle comunità. A molte e molti è piaciuto quello che stava succedendo.
Allestendo cinture sanitarie, molte comunità hanno chiuso le porte a bevande a base di cola e ad altra robaccia. Quelli che erano assuefatti ne hanno sofferto, ma l’effetto è stato evidente. Le persone hanno ricominciato a produrre il proprio cibo e a rifornirsi dei prodotti mancanti attraverso lo scambio con i villaggi vicini. Dove è piovuto, tutti si sono messi a seminare… Hanno previsto quella che sarà la prospettiva generale. Saranno meno colpiti dalla scarsità in arrivo e dall’aumento brutale dei prezzi dei generi di prima necessità che già si sta manifestando. La chiave sta nell’autonomia alimentare, come dice bene Raúl Zibechi.
Nei grandi insediamenti urbani, come Città del Messico o New York, è iniziato qualcosa di simile. Coloro che erano stati ridotti a individui e non avevano nulla che si potesse chiamare comunità, hanno cominciato a crearla. L’hanno fatto per prima cosa con amiche e amici, a volte in forma virtuale. Ma l’hanno fatto anche con i vicini, persino con quelli a cui non rivolgevano nemmeno il saluto, sebbene fossero vissuti per anni a pochi passi di distanza. La dimensione locale ha recuperato la sua importanza. Si è trattato di abitare di nuovo il luogo in cui si vive, al di là della mera residenza. È rinato il quartiere, lo si è costituito o lo si è conquistato.
Si sono moltiplicati gli orti urbani. Da alcune parti hanno cominciato a scarseggiare i semi, per il gran numero di famiglie che hanno trasformato in orto il balcone, il cortile o la terrazza delle loro case. Molte donne hanno ricominciato a cucinare insieme.
Il collasso del sistema sanitario ha provocato angoscia e persino disperazione. Alcuni sono morti andando da un ospedale all’altro per trovarne uno che li ricoverasse; quando lo trovavano, era troppo tardi. Così è morto Jaime Montejo, il fondatore della Brigata di Strada di Appoggio alla Donna. Ha contratto il virus quando la sua passione di sempre l’ha portato ancora una volta per strada; non è riuscito a rimanere confinato di fronte a ciò che stava accadendo. Molti ospedali l’hanno respinto. Questo a Città del Messico.

La tragedia ha innescato anche delle iniziative. Si è diffusa la voce che in molti ospedali erano otto su dieci le persone intubate che morivano. Che fosse vero oppure no, ha preso piede la decisione di attendere in casa una morte degna, invece di soffocare in una stanza isolata. Questo ha rappresentato un’occasione per sperimentare forme di prevenzione e di cura che venivano scartate nel mondo istituzionale, dove la scienza medica continua a condurre esperimenti spesso alla cieca.
Chi aveva trascorso il 2019 passando da una mobilitazione all’altra, le donne che appena l’8 marzo avevano sfidato la normalità patriarcale o i giovani che avevano utilizzato qualsiasi pretesto per manifestare nelle strade non sopportavano più il confinamento. Avrebbero voluto tornare di nuovo in strada. In aprile, però, hanno iniziato un’altra riflessione. Erano scesi in strada per chiedere qualcosa alle autorità. Quello che vogliono oggi non si trova nei meandri burocratici, nei programmi governativi o nelle decisioni di leader illuminati. Ora guardano in un’altra direzione, per resistere e tracciare cammini che passano per la disobbedienza civile.
Le multinazionali e i governi continuano a cercare di recuperare una qualche forma di normalità, come fa molta gente. Ma la macchina si inceppa. I consumi che la fanno muovere sono crollati. Milioni di persone hanno perso il lavoro o le loro fonti di reddito, il loro potere d’acquisto. Altri milioni hanno scoperto, durante il confinamento, che si può vivere felicemente senza andare al centro commerciale e che dalla dipendenza dal consumo si può guarire in pochi giorni. I fiumi di denaro pubblico speso in interventi improvvisati o convogliato verso imprese in difficoltà non compensano il crollo dei consumi. Per questo l’economia non si riprenderà, anche se si continua ad organizzare la spoliazione, e il saccheggio persiste.
Sembra inevitabile lo scontro di treni, potremmo dire con una vecchia espressione che non è mai stata così pertinente [qui il riferimento è al Treno Maya, un mega-progetto di ferrovia veloce molto controverso, ndt]. Il governo porta avanti i suoi mega-progetti, che distruggono le modalità di vita della gente, e vuole che tutte e tutti siano al servizio del capitale, in cambio di briciole e di sottomissione. I popoli indigeni non desiderano lo scontro e la violenza, ma non cederanno i loro territori ancestrali. Molte persone sono disposte a perdere la vita piuttosto che la dignità, di fronte a coloro che si mostrano decisi a usare la forza anziché la ragione per imporre la loro volontà.
Una crisi generalizzata apre la strada a una ricostruzione della società, scriveva Illich mezzo secolo fa, descrivendo dettagliatamente quello che sta succedendo oggi. C’è chi piange sulle rovine di ciò che è andato perduto. Si rimpiangono pratiche, modi di fare o istituzioni. Ma ormai siamo in un’altra epoca. Non c’è spazio per l’ottimismo né per l’illusione, ma è venuta l’ora di nutrire speranze.
Fonte: “Acercamientos”, in La Jornada, 01/06/2020.
Traduzione a cura di Camminardomandando.
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