Meno visibili ma molto più interessanti non solo delle competizioni elettorali e delle vicende asfittiche dei partiti, ma anche delle lotte più “notiziabili” di quel che resta dei movimenti sociali in América Latina, le autonomie sono nate come forme difensive con cui i popoli indigeni, dalle selve amazzoniche alle montagne andine, resistevano all’arroganza dei governi degli Stati-nazione per continuare ad esistere. Oggi, cresciute in dimensioni e larghezza di orizzonti, e divenute sempre più plurali, le autonomie cominciano ad andare molto oltre quella funzione di resistenza. Si stanno trasformando in vere e proprie alternative di vita ma anche in rilevanti punti di riferimento di una nuova cultura politica in un periodo di caos sistemico e crisi della civilizzazione. Nel prologo a “Lotte territoriali per le autonomie indigene in Abya Yala” (maggio 2022, Editorial El Colectivo), un volume che raccoglie ricerca e dialoghi sui saperi in relazione ai territori e le autonomie, Raúl Zibechi ci suggerisce di leggere le autonomie che si diffondono in América Latina non come un modello generale e astratto di “autonomia”, magari da far accettare o imporre alle istituzioni dello Stato, ma come processi reali che mostrano qualcosa di più profondo. Quella capacità di dispiegare potenza nella creazione di mondi nuovi ci indica che le autonomie non vanno intese come un risultato a cui giungere, magari un’architettura istituzionale diversa ma stabile e definitiva. No, le autonomie di cui si parla qui sono parte di un lungo processo di auto-organizzazione collettiva e comunitaria che può avere inizio ma non fine, un processo che non potrà che valersi del suo destino di restare incompleto

Le autonomie camminano nei più diversi e remoti angoli dell’America Latina. Tra popoli originari, neri e meticci, nei campi e nelle città, tra contadini e altri lavoratori, per mano di donne e anziane che le sospingono a partire dalle più elementari necessità di preservare la vita, per continuare ad essere popoli. Camminano ciascuna con il proprio ritmo, con i propri passi, muovendo i piedi al ritmo dei propri sogni o delle proprie più urgenti necessità.
Guardando indietro, diciamo appena due o tre decenni fa, ci sembra incredibile come siano cresciuti i popoli, i quartieri, le comunità, nei loro autogoverni e nelle autonomie territoriali. Agli albori del secolo, montate sul ciclo piquetero, abbiamo ascoltato voci collettive che si proclamavano autonome da governi, chiese, partiti e sindacati, in sintonia con la parola dello zapatismo che, in quei medesimi anni, predisponeva la formazione dei suoi caracol e giunte di buon governo che hanno insegnato al mondo che potevano governarsi da sé stesse, nonostante il disprezzo e i crimini dei cattivi governi.
Nel Cauca colombiano decollavano, in quei medesimi anni, le prime Guardie Indigene, esperienza del Popolo Nasa che ancora non aveva richiamato i nostri cuori, ma che fin dal primo giorno mostrava come affrontare, con la dignità del bastone di comando e la volontà collettiva, tanto i militari come i paramilitari e i guerriglieri che volevano coinvolgerli in una guerra che non è stata mai di loro.
Ora non basta lo sguardo più ampio per abbracciare tutte le autonomie che ci sono: quelle che si ergono nelle selve, quelle che si inerpicano fino alle cime andine e fluiscono, come i fiumi avvincenti, verso le pianure di ambedue le coste del continente. Sono troppe per contarle. Molto diverse per ordinarle in poche variabili. Tante che ne rimane sempre qualcuna lasciata nell’oblio, così ingiusto, come la smemoratezza che ci impegniamo a combattere.
Non dedicherò questo spazio alle autonomie zapatiste. Che sono passate dai cinque caracol iniziali ai dodici, annunciati nell’agosto del 2019, con i 42 centri di resistenza nati al calore dell’attivismo delle donne, delle giovani e dei giovani zapatisti, come disse a suo tempo il sub Moisés. Con le loro decine di scuolette e sale di salute, erette e gestite dalle basi d’appoggio e dalle comunità, senza chiedere in prestito nulla a quelli in alto, rifiutando degnamente le politiche sociali con cui vogliono umiliarle. Con i loro tre livelli, locale o comunale, municipale e regionale.

La Guardia Indigena del Cauca della Colombia
Meno conosciuto, ma non meno importante, è il caso della Guardia Indigena del Consiglio Regionale Indigeno del Cauca (CRIC), nata nei remoti contrafforti delle Ande con nomi inusuali come Jambaló, agli inizi del millennio. Richiama l’attenzione la crescita delle guardie, questione su cui è necessario soffermarsi, perché autodifesa fa rima con autogoverno e autonomia. Quello che difendono è la vita radicata in territori di dignità. È la persistenza dell’alterità che conduce i popoli verso l’autonomia: è perché siamo differenti che abbiamo bisogno dell’autonomia; per difenderla, per governarla e continuare ad essere differenti.
Dalle 300 guardie iniziali, siamo passati a decine di migliaia in tutta la Colombia, ma il numero è la cosa meno importante. Durante i primi mesi della pandemia, il CRIC ha mobilitato 7000 guardie in una “Minga verso l’Interno” che era necessario proteggere, con 70 punti di controllo, l’autonomia di 84 riserve e 115 consigli, per far funzionare la propria giustizia, le fiere di scambio e la medicina tradizionale dei saggi thé walas (le massime autorità spirituali del popolo nasa paez, ndr). Guardie che hanno reso possibile l’armonizzazione del territorio e delle anime, con rituali intorno alle tulpas/focolari, ai piedi delle montagne o sulle sponde delle lagune sacre.
Tra 5000 e 7000 guardie sono scese da Santander de Quilichao fino a Cali, attraversando canneti in terre usurpate che il processo di liberazione della Madre Terra sta recuperando palmo a palmo, per partecipare alla rivolta insieme alle giovani e ai giovani respinti dal neoliberalismo. Sono tornate alle loro abitazioni con gli zaini pieni di energia ribelle e hanno lasciato il seme delle “guardie comunitarie urbane” che già hanno cominciato a far camminare la propria parola. Hanno mostrato alla gioventù urbana come si possono neutralizzare i maschi armati, con il coraggio che dà l’esperienza e il valore che apportano i popoli.
Le guardie colombiane si stanno espandendo in modo notevole. Tra i 115 popoli originari sono state formate tra le 40 e le 60mila guardie, una cifra secondo la necessità perché, come dicono gli indigeni del Popolo Nasa, quando la situazione lo richiede “tutti siamo guardie”.
Nell’ultimo decennio, e questa è forse la cosa più notevole, l’esperienza della Guardia Indigena si è acclimatata tra altri popoli dando vita alla Guardia Cimarrona dei popoli neri per difendere i loro palenque e perfino alla Guardia Contadina, recuperando la tradizione delle “guardie civiche” dell’Associazione Nazionale degli Utenti Contadini del decennio cominciato nel 1970.
Governo Territoriale Autonomo della Nazione Wampis del Perù
Un altro passo e andiamo verso la selva amazzonica, vicino alla frontiera tra il Perù e l’Ecuador, dove da cinque anni funziona il Governo Territoriale Autonomo della Nazione Wampis, che è la risposta delle comunità alle minacce rappresentate dalle mega opere, in particolare per i fiumi che sono la vita dei popoli amazzonici. Alcune settimane dopo le prime dichiarazioni di autonomia, dal 26 al 29 novembre 2015, circa 300 rappresentanti di 85 comunità si riunirono e concordarono la creazione del governo autonomo.
Quella dichiarazione è stata un fatto senza precedenti nella storia del movimento indigeno peruviano, essendo il risultato di quattro decenni di lotte di rivendicazione culturale e territoriale. Come recita lo statuto di autonomia, si decise di “governare il proprio territorio nell’interesse generale, proteggerlo da aggressioni esterne, mantenere un ambiente sano, reclamare i diritti collettivi quando è richiesto, così come definire le strutture di governo, la partecipazione e la rappresentanza esterna conformemente al diritto all’autonomia e al diritto consuetudinario della nazione wampis”.
Con il passare degli anni, il passo fatto dai Wampis avrà una profonda influenza nelle centinaia di popoli amazzonici che affrontano i medesimi problemi, gli estrattivismi, e condividono cosmovisioni simili. Per ora, altri tre popoli amazzonici del nord peruviano stanno discutendo l’eventualità di prendere un cammino simile.

Autonomia per difendersi dall’attività mineraria e dall’agrobusiness
Anche l’Amazzonia legale brasiliana è testimone di un’ondata di processi autonomistici, come rivela l’indagine in corso del geografo Fabio Alkmin. Si tratta di quattordici popoli che transitano verso l’autonomia per difendersi dall’attività mineraria e dall’agro-business. Si organizzano intorno ai protocolli autonomi di consultazione che portano avanti i popoli munduruku, ashaninka, wajapi, juruma, kayapó, waimiri, yanomami, panará, irantxe, mura y wapichana, tra gli altri, degli stati del Pará, Mato Grosso, Amazonas, Roraima, Amapá y Acre.
L’obiettivo è dar seguito al Trattato 169 dell’OIL che riconosce i diritti collettivi dei popoli, ma al di fuori dell’intervento e della regolamentazione degli Stati, e perfino delle ONG che si presentano come “amiche” dei popoli ma vogliono soppiantarli.
Non stanno sviluppando un modello generale, formale e astratto di autonomia, ma fissano le consultazioni sui meccanismi tradizionali, fatto che equivale ad adattare il già celebre “comandare obbedendo” alla realtà di ogni popolo. Per questo, come segnala questo libro, dobbiamo parlare di “autonomie”, al plurale, perché ogni popolo, ma anche ogni quartiere, ogni settore sociale (perché l’autonomia inizia ad estendersi al di là delle frontiere “etniche”), crea l’auto-governo autonomistico secondo i propri modi e con le proprie forme.
In principio, le autonomie erano destinate ad essere le forme con cui i popoli originari si relazionano con gli Stati-nazione. Adesso qualcosa si sta muovendo, come sempre dalle periferie verso il centro. Viste dai popoli, le autonomie che nascono come forme difensive per continuare ad essere, per assicurare la vita delle comunità indigene, incominciano ad andare più in là, mostrando che possono essere non solo modi di resistenza ma progetti politici di trasformazione del mondo o, se si preferisce, i mondi altri già realmente esistenti.
Detto in un altro modo, le autonomie che sono nate per regolare la relazione tra popoli indigeni e Stati si stanno trasformando in alternativa di vita e riferimenti politici in un periodo di caos sistemico e crisi di civiltà. Si può menzionare l’esperienza zapatista come una di quelle con più successo al momento di costruire il nuovo, senza dimenticare però che i popoli del Cauca colombiano insegnano a contadini e neri, a settori popolari urbani e a giovani respinti dal neoliberalismo, che non hanno altra strada che organizzarsi, creare altri mondi per sopravvivere e difenderli come fanno le guardie.
Non siamo di fronte ad un nuovo progetto politico che magari sostituisca l’operaismo, ma a processi reali che mostrano qualcosa di più profondo: la creazione di mondi nuovi non passa per l’accettazione e la convalida delle istituzioni statali, ma per la capacità di dispiegare le potenze autonomiste che si annidano in tutti i popoli e settori sociali.
È pura necessità di fronte alla “quarta guerra mondiale” o accumulazione per saccheggio/furto/distruzione, che poi è il modo con cui il capitalismo agisce in questo periodo di decadenza. Non siamo di fronte a un’opzione ideologica, ma di fronte alla lettura di una realtà che ogni volta di più i settori sociali stanno facendo transitare in America Latina.
In questo senso, le autonomie non possono essere intese come un luogo a cui si giunge, una architettura istituzionale definitiva e stabile, ma come parte di un lungo processo di auto-organizzazione collettiva comunitaria, che ha un inizio ma non ha fine perché è sempre incompleta.
Se lo Stato non deve essere un corsetto per le lotte dei popoli, come precisa Silvia Rivera Cusicanqui, nemmeno possono esserlo le teorie della rivoluzione che hanno segnato il nord del mondo in altri periodi, ma oggi che sono sfidate dall’aggressività del capitale e superate dalle resistenze e dalle creazioni dei popoli.
Prestare attenzione ad ogni passo alla costruzione di autonomie e autogoverni è molto più importante che focalizzarsi su partiti e movimenti burocratizzati. Con quelle costruzioni stiamo apprendendo; accompagnarle senza giudicare è una sfida di umiltà e può essere un punto fisso politico teorico per ricostruire il pensiero critico e le pratiche di emancipazione.
*Tratto dal terzo libro del Gruppo di Lavoro del Clacso “Popoli indigeni e processi autonomistici”, pubblicato da Editorial El Colectivo.
Fonte: Agencia Tierra Viva
Traduzione a cura del Comitato Carlos Fonseca
Lascia un commento