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Anche le lattughe nel loro piccolo…

Franca Roiatti
18 Ottobre 2012

Il libro «La rivoluzione della lattuga» è in circolazione già da un anno, ma merita davvero di essere conosciuto. Qui di seguito l’introduzione pubblicata nel sito della casa editrice Egea (egeaonline.it), dove trovate anche l’indice completo.

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Di cibo si parla moltissimo: reality di cucina, libri di ricette, consigli dietetici, ristoranti gourmet. Da tre anni si parla molto anche del suo prezzo. Pochissimo del suo valore, quasi mai del suo costo. Se mangiare è un atto politico, per molti anni di fatto non siamo andati a votare. Comprare cibo e consumarlo sono diventati gesti di routine. Non ci resta che decidere cosa vogliamo e incamminarci nella giusta corsia del supermercato. Magari approfittando di una strepitosa offerta. I progressi dell’agricoltura, dell’industria alimentare e della grande distribuzione ci hanno dato una vasta possibilità di scelta, liberandoci l bisogno. E togliendoci il controllo. Non sappiamo più molto bene da dove arriva e cosa ci sia davvero in quello che mettiamo nel piatto. Per nutrirci spendiamo una percentuale bassisima del reddito, semplicemente perché il resto lo paga la Terra.

Sullo scontrino non compaiono mai tutte le voci di spesa, la conta delle risorse impiegate o distrutte per avere la bistecca, le merendine o le banane. Se fossero conteggiate forse non ce le potremmo permettere. In realtà molti segnali ci stanno dicendo che già non possiamo più. La Terra è in affanno e la capacità produttiva dei nostri campi non è più quella che ha accompagnato la Rivoluzione Verde del XX secolo.

L’innalzamento della temperatura del globo rischia di ridurre a deserti di polvere aree già ora densamente abitate e povere, accrescendo la frequenza di eventi atmosferici estremi, colpendo le preziose risorse idriche.

Eppure ci attende un sfida importante, sfamare un mondo sempre più popoloso, una sfida che il nostro modello di agricoltura, totalmente dipendente dal petrolio, non sembra in grado di superare. Si consuma greggio per arare, irrigare, concimare. Si brucia combustibili fossili per trasformare il cibo e trasportarlo da un continente all’altro. Ma il petrolio non è infinito e il mondo ne userà sempre di più. Dove prenderemo tutta l’energia necessaria a far girare la fabbrica del cibo a ritmi ancora più sostenuti? In più, come è possibile conciliare la necessità di abbassare le emissioni di gas serra, con un modello produttivo altamente inquinante?

Eppure a guardare da vicino la nostra efficientissima macchina alimentare si scopre che gli ingranaggi sono tutt’altro che perfetti e che forse, più che pensare a come accelerare la sua corsa, bisognerebbe riflette sul suo funzionamento.

Produciamo troppo e sprechiamo molto. Quasi un miliardo di persone è sull’orlo o dentro il baratro della fame, ma un miliardo è troppo grasso a causa di cibo, che invece di nutrire fa ammalare, che è stato costruito e impacchettato, soprattutto per essere desiderato e comprato, piuttosto che per rispondere ai bisogni primari del nostro organismo.  L’ansia di produrre sempre di più a costi sempre inferiori ha reso fragile la catena alimentare, esponendola al rischio di contaminazioni e manipolazioni.

Non solo: la macchina creata per generare abbondanza e liberarci dal bisogno sta schiacciando i principali depositari della sapienza agricola, i piccoli contadini, che nel nord come nel sud del mondo pagano il tributo più alto al potere del mercato globale. Il grido degli agricoltori ha cominciato a levarsi già da tempo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Le lotte per l’affermazione della sovranità alimentare, il diritto a scegliere che cosa coltivare e che cosa mangiare si combattono da molti anni.

In Africa l’agricoltura familiare con tutti i suoi limiti riesce ancora a sfamare la maggior parte del continente. Nelle città africane e asiatiche larghe fasce della popolazione più povera riesce a procurarsi da mangiare e da vivere, coltivando angoli di terra, allevando galline e facendo ricorso ai saperi ereditati dalla campagna. Nutrire le grandi megalopoli, e le bidonville del futuro, è una sfida enorme, non è un caso che la FAO spenda ingenti risorse in programmi di agricoltura urbana. E che lungo le strade sconnesse e le fognature a cielo aperto sorgano straordinari esempi di creatività applicata all’orto. I cittadini del nord del mondo, invece, per molto tempo sono sembrati indifferenti al destino delle campagne. Anestetizzati dall’abbondanza e dalla disponibilità dei prodotti alimentari, avevano perso la coscienza di cosa sia davvero il cibo, dimenticandosi che esso rappresenta il contatto più profondo con la terra e la natura. Non è più così.

Le crisi, a partire da quella ambientale per finire con quella economica, hanno spinto molte persone a recuperare sensazioni e saperi perduti,e tentare di riscrivere regole che non convincono più. Ci sono molti modi per riappropriarsi di un rapporto con il cibo che non è solo materiale, ma soprattutto culturale. Tante strade per rifiutare l’idea che quello che finisce sulle nostre tavole sia un prodotto come gli altri, di cui è normale ignorare la storia, o trascurare la qualità barattandola con un’apparente convenienza. Si può cominciare con una pianta di pomodori sul balcone, facendo la spesa (e quattro chiacchiere) al mercato dei contadini, si può coltivare un orto collettivo o decidere di aderire a un gruppo d’acquisto solidale e scoprire la straordinaria varietà di relazioni umane che fioriscono intorno a un chilo di pesche, alla farina biologica o al formaggio dell’azienda che proprio comprando diversamente si è contribuito a salvare.

Questo libro nasce dalla curiosità di capire quanto contadini urbani, e agricoltori in lotta per la sopravvivenza, consumatori e attivisti, ma anche politici e sognatori possano davvero cambiare o almeno guarire il nostro sistema alimentare.

È un viaggio tra realtà molto diverse tra loro: gli orti «senza petrolio » dell’Avana e quelli creativi di Nairobi, le fattorie sociali di Detroit e i tetti coltivati di New York, le parcelle (ex) abusive di Torino e le aiuole improvvisate di Todmorden in Gran Bretagna. È un racconto di come le città del mondo stanno reagendo di fronte alla travolgente passione di giovani, anziani e famiglie intenzionati a ritrovare il legame con la terra, strappandola al cemento. La storia dei nuovi patti tra i centri urbani e la campagna, che si stringono in Francia, a Milano, Bologna, Pisa, nei quali chi compra il cibo si assume la responsabilità di ascoltare la fatica di chi lo produce. Il viaggio è per forza di cose incompleto, le esperienze di democrazia alimentare urbana sono moltissime e sarebbe impossibile raccoglierle in un solo libro. Troppi i volti e le voci che sarebbero schiacciati dai limiti della carta. Perché, in fondo, la ricerca di una nuova economia del cibo è prima di tutto una straordinaria avventura umana. A tutte le latitudini.

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