Molta parte delle caserme dismesse è costituita da tipologie non abitative: vecchie officine, depositi e laboratori. Dentro quegli immensi contenitori potrebbero trovare ospitalità un numero immenso di attività per ricostruire un tessuto sociale, produrre arte, cultura e formazione, stimolare l’artigianato e le nuove forme di autorganizzazione del lavoro, promuovere un altro modello di agricoltura.
di Paolo Berdini
La questione della vendita delle proprietà pubbliche e in particolare delle ex caserme riveste un ruolo fondamentale per lo stesso futuro del nostro paese per due distinti motivi.
Il primo più generale riguarda la folle china che tutti i paesi a “economia avanzata” hanno dovuto avviare per soddisfare l’ideologia dominante neoliberista. Lo Stato deve arretrare in ogni campo, dal welfare, alla titolarietà dei beni pubblici e alla proprietà dei grandi servizi di pubblici che hanno costruito il volto dell’Europa moderna. La Gran Bretagna iniziò per prima a privatizzare le ferrovie e a seguire fu privatizzata l’acqua pubblica (Parigi) e ogni paese ha venduto importanti proprietà pubbliche.
Questa ricetta applicata ai paesi che versano in una crisi economica più grave sta portando – come noto – alla scomparsa di ogni residuo di presenza pubblica, come nel caso della Grecia dove sono stati venduti porti, aeroporti e intere isole.
Questo fenomeno è cominciato in modo diffuso anche in Italia. Con meno clamore è stata messa in vendita la meravigliosa isola di Budelli in Sardegna. Firenze ha ceduto la titolarietà pubblica dell’azienda dei trasporti urbani. Torino si appresta a fare altrettanto. E in fondo alla gerarchia dei poteri dello Stato, i comuni messi in ginocchio da venti anni di tagli lineari si apprestano a vendere le proprietà pubbliche. Si deve fare cassa per colmare il pauroso deficit. Così ci dicono.
Il secondo motivo di centralità della questione delle proprietà immobiliari dello Stato e dei comuni sta nella più grave crisi di occupazione giovanile della storia del capitalismo moderno. In Italia più un giovane su tre, come noto, non lavora. Spesso si tratta di giovani che oltre ad aver acquisito cultura padroneggiano le nuove tecnologie informatiche e di comunicazione. Se questa è una figura emergente tra i nostri giovani occorre chiedersi perché mai non avviano nuove attività imprenditoriali oppure se ci riescono lo fanno tra mille difficoltà.
Le risposte stanno in primo luogo nella più assoluta mancanza di politiche di sostegno all’imprenditoria giovanile che contraddistingue il nostro paese. Ma il secondo motivo in ordine di importanza sta proprio nel livello troppo esoso degli affitti di locali per svolgere tali attività, specie nelle città più grandi. Il libero mercato non è in grado di risolvere i problemi di prospettiva ed è indispensabile il ritorno della mano pubblica.
Molta parte delle caserme dismesse è costituito da tipologie non abitative: si tratta di vecchie officine, depositi e laboratori. Dentro quegli immensi contenitori potrebbero trovare ospitalità un numero immenso di attività imprenditoriali giovanili. Basterebbe che lo Stato centrale definisse politiche mirate e che i comuni costruissero bandi di affidamento trasparenti e redatti su misura dei giovani. Insomma, invece di vendere i gioielli di famiglia si potrebbe provare a farli diventare il motore per una nuova fase economica dell’Italia fondata sui saperi, sulle competenze e sulla creatività dei giovani.
Una prospettiva agli antipodi rispetto agli obiettivi miopi e speculativi dei liberisti che amministrano ancora la cosa pubblica e degli istituti di credito che non aspettano altro che acquisire un patrimonio immenso e prezioso su cui concretizzare le cosiddette valorizzazioni che significano soltanto altre vergognose speculazioni.
L’importanza del tema delle caserme sta dunque nel fatto che nella battaglia per la loro difesa ci sono due differenti prospettive per il futuro dell’Italia. Quella di una prospettiva di nuova produzione innovativa e quella che ci ha portato all’attuale drammatica crisi, e cioè il trionfo della rendita immobiliare che sta strozzando il paese.
Di questi temi si ragiona martedì 26 (ore 18) al Commons Cafè del Teatro Valle occupato “Caserme in comune. Il futuro delle aree militari in dismissione”. Informazioni sull’evento sono su facebook.
Il progetto elaborato da Quinto Stato e Comitato Tiburtina, un anno fa, invece, lo trovare QUI.
DA LEGGERE
Il diritto alla città e le opportunità perse del federalismo demaniale (Alessandra Quarta)
Parole e musica delle aree dismesse ( Monica Pasquino )
Sarebbe una svolta importante per il nostro futuro, o quantomeno, credo, un buon catalizzatore per uscire dall’inoccupazione e un segnale per i giovani da parte dello Stato. E’ una mossa che in altri Stai europei è già stata attuata con grande riscontro; con mense, ostelli, locali usufruibili per attività sociali, conferenze, corsi e quant’altro. Che altro dire: bell’idea, diamoci da fare, e speriamo che i fatti seguano le nostre intenzioni!
ROMA: RIPRENDIAMOCI LE CASERME
Scrivono quelli del “Comitato Tiburtina per l’uso pubblico delle caserme” (http://www.facebook.com/comitato.tiburtina): “Con grande soddisfazione apprendiamo che le caserme Ruffo e Gandin, patrimonio pubblico fino ad ora inaccessibile, per le quali tanto ci siamo tanto battut* in questi anni e su cui abbiamo costruito progetti partecipati di riconversione e riuso, sono stati richiesti al demanio dal Comune di Roma.
Ora, perché questi immobili diventino beni comuni e proprietà collettive sono necessari altri due passaggi. Il primo – al momento assolutamente assente – è il coinvolgimento della cittadinanza per la scelta delle destinazioni d’uso in base ai bisogni e all’esigenze definite in percorsi assembleari territoriali. Il secondo è la gestione partecipata e trasparente degli spazi.
Dal canto nostro, speravamo ci fosse disponibilità al confronto da parte dell’Assessore alla Trasformazione urbana, che aveva istituito con il Comitato cittadino per l’uso pubblico delle caserme un “tavolo permanente di consultazione” sulle aree militari in dismissione – peccato che Giovanni Caudo quel tavolo non lo abbia mai convocato.
Poco importa. Apriamolo con tutta la città un tavolo permanente, che discuta il futuro e le destinanzioni d’uso degli immobili da recuperare, oltre alle caserme ci sono più di cento immobili”.