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Albano naviga in cattive acque

Cesare Budoni
13 Novembre 2012
Il lago Albano, noto anche con lago di Castel Gandolfo o lago di Albano, è il lago vulcanico più profondo d’Italia (centosettanta metri). Sulle sue coste si trovano importanti resti archeologici preistorici e romani. Sviluppo, cemento, siccità e incuria lo stanno svuotando

Accade alle porte di Roma, come tante altre cose alle quali sul nostro territorio non si presta mai la dovuta attenzione. Stiamo perdendo il Lago Albano e quello di Nemi potrebbe più in là seguire la stessa sorte. Tutti lo sanno da decenni e sono decenni ormai che se ne parla senza che si faccia poi nulla di concreto per invertire la tendenza. Studi e rilievi scientifici, riunioni della politica e dei tecnici, convegni e sopralluoghi, nulla di tutto questo, nell’era delle conoscenze e delle tecnologie, sembra riesca a risolvere il terribile destino di un semplice, piccolo specchio d’acqua di origine vulcanica incastonato tra piccole colline e qualche Comune dei Castelli Romani. Come è possibile che questo accada sotto gli occhi di tutti e quasi senza reazioni?

Il lago Albano, noto anche con i nomi impropri di lago di Castel Gandolfo o lago di Albano, è il lago vulcanico più profondo d’Italia (centosettanta metri), sulle cui coste si trovano importanti resti archeologici preistorici e romani, come il Villaggio delle Macine, l’emissario artificiale e i ninfei dorico e del Bergantino, quest’ultimo parte integrante del complesso della Villa Albana di Domiziano.

Ma quali sono le principali cause del problema? L’estrema urbanizzazione del territorio con conseguenze sulla permeabilità del terreno (la troppa cementificazione impedisce che l’acqua vada nelle falde che alimentano il lago); i troppi pozzi abusivi che prelevano elevate quantità di acqua; la canalizzazione dei fossi naturali «costretti» ad andare direttamente in mare (raccogliendo meno acqua del dovuto: la riduzione negli anni della piovosità (per il cambiamento climatico).

Vi è mai capitato di perdere qualcosa di veramente importante, un oggetto, un ricordo, una avventura particolarmente significativa tanto da suscitare ancora oggi dispiacere quando l’accaduto riaffiora nella vostra mente? Cos’è che provoca ancora oggi una tale reazione? Uno tra i fattori più importanti è sicuramente la consapevolezza: il fatto cioè di essere davvero intimamente certi che quel «qualcosa di importante» non c’è più. Nel campo della tutela del territorio e della biodiversità spesso è proprio la scarsa consapevolezza della salvaguardia ambientale come valore davvero importante che ci fa erigere una barriera mentale e culturale verso tutto ciò che in nome del progresso e del benessere personale vediamo collassare e scomparire sotto i nostri occhi. Questo è vero soprattutto all’interno e in prossimità della metropoli nella quale viviamo o dove svolgiamo le nostre attività. Forse è per questo che, mentre ci rendiamo conto, come nel nostro caso, della sofferenza innegabile del lago Albano e del suo ecosistema, non tutti disponiamo oggi degli strumenti adeguati per comprendere il danno che stiamo causando. Non riusciamo a renderci conto che anche questo lago (come tante altre situazioni simili) rientrano tra «quelle cose veramente importanti» della nostra esistenza personale e collettiva che stiamo per perdere per sempre.

È noto infatti che dal 1960 (l’anno in cui qui si svolsero le gare di canottaggio per le Olimpiadi di Roma) ai giorni nostri il lago Albano si è clamorosamente abbassato nel livello di acqua rispetto a quello che le persone, definite oggi adulte o anziane, ci ricordano. Ma come è potuto accadere tutto questo? Si è vero, abitiamo sopra un pianeta dove eventi simili possono accadere anche naturalmente; ma nello specifico è già da tempo che le cause sono state individuate con precisione, sia da parte dei tecnici e degli studiosi che hanno esaminato e studiato il problema, sia da parte di associazioni e comitati che hanno invitato negli anni gli amministratori competenti che si sono succeduti a prendere le decisioni più adeguate, a «riparare il danno commesso». Allora, come reagire? O meglio, si è davvero decisi a reagire e a recuperare la situazione? La domanda è lecita, visto che gli avvisi degli scienziati e gli allarmi degli ambientalisti sono spesso andati a vuoto, generando reazioni davvero scarse rispetto alla gravità evidente della situazione, specialmente per quanto riguarda il lago Albano.

Innanzitutto bisogna insistere e continuare a sollecitare chi ha le responsabilità dirette a dichiarare con estrema chiarezza qual è il piano di recupero e tutela che è meglio scegliere tra le tante opinioni e i numerosi studi effettuati; questo per salvare, in questa rincorsa contro il tempo, un sistema naturale prezioso, sia come valore in sé sia per la nostra stessa esistenza. Occorre rafforzare e perseguire un percorso comune attraverso i meccanismi della più ampia partecipazione che metta insieme tutte le indicazioni rigorosamente tecnico-scientifiche, tutte le difficoltà e le possibilità della pubblica amministrazione e degli enti competenti, tutta la vitalità e la passione delle associazioni e dei singoli cittadini che da anni aspettano e premono per una soluzione valida e concertata. Tutto questo deve avere uno sbocco, una soluzione che è vitale sia per il lago sia per tutti noi.

Di certo, le idee per possibili soluzioni non mancano: impedire l’apertura di nuovi pozzi e chiudere il più possibile quelli abusivi; ridurre i consumi dell’acqua del lago; rinnovare le condutture idriche; tutelare i fossi dall’antropizzazione; prevedere l’approvvigionamento delle acque non potabili per tutte le attività che potrebbero usarle; impedire ogni ulteriore cementificazione dei suoli, soprattutto delle coste dei due laghi; chiudere ogni adduzione di acqua dai laghi che non sia utilizzata per scopi agricoli all’interno delle coste dei laghi.

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