I viaggi dei migranti sono costruiti dalla capacità dei soggetti di organizzarsi. Il nostro riferimento è la teoria dell’autonomia della migrazione, ma c’è anche una coalizione assolutamente eterogenea che rende possibile il viaggio. Luca Queirolo Palmas insegna sociologia delle migrazioni all’Università di Genova, da molti anni è impegnato in preziose quanto originali ricerche sociali che pongono al centro i soggetti e guardano la realtà dalla loro prospettiva. Un punto di vista che, come tutti sanno, non è quello solitamente utilizzato sui media e in ambito accademico quando si parla di persone migranti. Tra le pubblicazioni di Luca, c’è “Underground Europe. Lungo le rotte dei migranti” (Meltemi, 2020), scritta con Federico Rahola. Documenta cinque anni di incontri al confine tra persone in transito e reti di attivisti. La solidarietà, spiega Queirolo Palmas, è essenzialmente femminile in tutti i luoghi di confine: sono le donne che generalmente la guidano e la organizzano. C’è inoltre una grande partecipazione di giovani discendenti della migrazione, di seconda e terza generazione. “Underground Europe” prende un esame una comparazione ardita che mette in relazione le reti di sostegno alle migrazioni contemporanee in Europa con la Ferrovia Sotterranea, la poco raccontata rete che nel Nordamerica della prima metà dell’Ottocento contribuì alla fuga di migliaia di persone schiavizzate che cercavano un territorio sicuro dove vivere in libertà. Leggete con attenzione questa bella e importante intervista raccolta da Sarah Babiker della redazione di El Salto perché rivela un approccio ai temi della libertà di movimento che tendiamo spesso a trascurare. Lo avevamo messo bene in evidenza nel sottotitolo del primo quaderno di Benvenuti Ovunque: è con i sogni di chi parte e di chi lo sa accogliere che si fanno i mondi nuovi

Presidio Permanente No Borders – Ventimiglia
Mentre fuggono da istituzioni la cui politica consiste nel controllarne la mobilità e dar loro la caccia, come vivono il loro muoversi le persone migranti? E come vengono attivate le reti che accompagnano queste persone in movimento nel loro viaggio clandestino attraverso il territorio europeo e le aiutano ad attraversare le frontiere? I sociologi delle migrazioni dell’Università di Genova, Luca Queirolo Palmas e Federico Rahola, hanno scritto “Underground Europe. Lungo le rotte dei migranti” (Meltemi, 2020), dopo cinque anni di ricerca attraverso i diversi confini europei, per offrire uno sguardo sul viaggio dei migranti all’interno della Fortezza Europa, prendendo come riferimento la storia della ferrovia clandestina, la rete che nel Nordamerica della prima metà dell’Ottocento contribuì alla fuga di migliaia di schiavi che cercavano uno spazio sicuro dove vivere in libertà.
Durante una visita a Madrid per presentare il libro, il 7 novembre scorso a Traficantes de Sueños, Queirolo Palmas ha spiegato come gli immaginari di allora possano servire ad alimentare le pratiche sovversive contro il confine oggi e contribuire a creare società altre in grado di sfidare tutti gli ordini di oppressione, anche quelli di genere o di classe.

Presidio Permanente No Borders – Ventimiglia
Nel vostro libro fate un parallelo tra la Ferrovia Sotterranea, un movimento che ha sostenuto la fuga verso un territorio sicuro di persone schiavizzate negli Stati Uniti, e le reti di solidarietà che sostengono i migranti nel loro viaggio, nell’Europa del 21° secolo. Cosa contribuisce a portare alla luce questo parallelismo?
Approfondiamo la storia della Ferrovia Sotterranea, a cui dedichiamo buona parte del libro, perché pensiamo che sia una storia che possiamo riscattare per prendere un immaginario che fa parte dei movimenti che lottano contro le frontiere. Ai tempi della Underground Railroad la lotta era per l’abolizionismo, ora l’obiettivo dei movimenti è ancora un’abolizione, ma questa volta delle frontiere.
Fino a che punto possiamo imparare da quella storia? Apprendere da essa, significa anche nutrirsi degli immaginari e dei miti che esistevano dietro di essa. Si tratta di una vicenda, riguardo alla quale il dibattito storico non ha mai raggiunto un consenso. Per alcuni autori, la Underground Railroad è stata un enorme strumento di massa di liberazione delle piantagioni per gli schiavi, un mezzo che in 50 anni ha permesso a circa 200mila persone di fuggire. Per altri, è stata qualcosa di molto meno importante che però alimentava comunque un immaginario di liberazione. Abbiamo pensato che qualsiasi movimento sociale avesse bisogno di incorporare, produrre, alimentare un immaginario. Il libro nasce un po’ dall’interno di questi movimenti, dalla domanda su cosa possiamo apprendere da quella storia? Quali dei suoi elementi risuonano ancora nel presente?
Di fatto, sottolineate l’esistenza di questioni comuni.
Sì, uno è il tema delle coalizioni, vale a dire: come si è prodotto materialmente il passaggio stagione dopo stagione, e quali sono stati i soggetti che hanno alimentato la possibilità del movimento. Quello che abbiamo trovato è molto interessante, la Ferrovia Sotterranea tra il 1800 e il 1850, negli Stati Uniti, gode di questa dimensione eterogenea della coalizione. Dentro ci sono schiavi liberati, certo, ci sono migliaia di gruppi religiosi e allo stesso tempo ci sono pure soggetti che hanno assorbito gli ideali della Rivoluzione Francese, dell’Illuminismo, soggetti bianchi. Queste coalizioni hanno generato anche un proprio spazio: si trattava di sovvertire il funzionamento quotidiano della società di quel tempo, i rapporti di genere e di classe. Cambia il modo in cui venivano prese le decisioni, e cambia pure la stessa organizzazione produttiva.
Il nostro racconto inizia con quel libro minore di Benjamin Drew, pubblicato nel 1854 e intitolato “The Refugee“. Drew era un giornalista che però faceva parte della sezione più radicale dell’abolizionismo bianco. Il suo è un libro molto interessante, la parte dell’autore è minima, sembra un’opera etnografica del presente, dove Drew cerca di dare la maggior parte dello spazio ai soggetti subordinati, in questo caso schiavi liberati. Non li trova negli Stati Uniti perché la Fugitive Slave Law era stata applicata molto rigidamente, ma in Canada li trova in tutte le comunità dove gli schiavi si erano radicati, intravedendo un altro modo di costruire la società. Quindi, sono gli schiavi che parlano.
La cosa interessante di quel libro, al di là dell’approccio metodologico, è che collega il tema del rifugio a quello della classe sociale, cosa molto innovativa negli Stati Uniti del 1850. Un altro punto interessante è che la parola Ferrovia non compare, è citata solo tre volte nelle mille pagine del libro. Eppure tutte le storie che si raccontano sono state generate in un certo modo da quella Ferrovia Sotterranea.

Anche questo è qualcosa che ha una certa risonanza nel presente: il tema del cosa si può raccontare, cosa non si può dire, cosa si può svelare, cosa non si può svelare. Si tratta di una discussione presente anche all’interno dei soggetti che compongono la Ferrovia sotterranea contemporanea. .
Per noi è stato un lavoro sulla storia, ma anche sulla metafora e la possibilità di prendere quella mitologia e associarla a una nuova mitologia del presente che possa circolare all’interno dei movimenti sociali. Quando la parola Underground Railroad è stata coniata, intorno al 1825, 1830, il treno era quasi inesistente. Non c’erano nemmeno i tunnel. Non si sa chi abbia cercato di incorporare la liberazione e la fine della schiavitù in una battaglia intorno alla modernità. Queste storie ci aiutano a guardare in altri modi ciò che accade alle frontiere del presente.
In un momento in cui sembra non ci sia tempo per fermarsi ad analizzare ciò che sta accadendo, parlate di fare la storia del presente. Cosa rende possibile questa storia del presente?
Max Weber, autore classico della sociologia, diceva che non ci può essere sociologia senza storia, né storia senza sociologia. Quando guardiamo allo spazio della frontiera, vediamo come lì si accumulano gli effetti inerziali di un passato che produce il presente e produce il futuro. Ma ci sono anche tagli, lacerazioni. Ci sono momenti di produzione di altre pratiche e di altri immaginari.
Fare storia del presente è uno strumento metodologico che utilizziamo per interpretare le frontiere contemporanee, quell’eterogeneità della Ferrovia Sotterranea di due secoli fa, in un certo senso la ritroviamo ora in ogni frontiera: ci sono soggetti sociali molto diversi tra loro, persone che sono lì per la religione, persone coinvolte dalla loro professione…
Per esempio, i pescatori che contribuiscono al salvataggio in mare non costruiscono le loro pratiche a partire da un’ideologia politica, ma da un’etica del mare legata a uno spazio di solidarietà. Lo stesso vale per le guide in montagna. Quindi, ci sono anche professioni che sono legate alla possibilità di costruire il viaggio. Poi ci sono situazioni più politiche, legate a diversi movimenti sociali. Mi sembra qualcosa di molto interessante, perché troviamo questa dimensione binaria tra ragioni umanitarie e ragioni politiche. Alla fine i religiosi, ad esempio, capiscono benissimo che l’assistenza durante il viaggio non è qualcosa che possa cambiare le cose, così come le persone che provengono dai movimenti sociali capiscono benissimo che ci sono bisogni primari che è essenziale per coprire per poter fare una lotta politica contro le frontiere.

A noi pare che la forma della coalizione di 200 anni fa sia qualcosa che si verifica materialmente in tutte le situazioni di confine. Un altro elemento importante è la costruzione di un’altra narrazione che si confronti con l’immaginario del migrante visto come la vittima e del trafficante come il cattivo, come se i migranti non fossero protagonisti del loro stesso viaggio. È una retorica istituzionale dove il problema della morte, il rischio della migrazione clandestina, è qualcosa legato esclusivamente alla tratta.
Quello che si vede è che i viaggi si costruiscono a partire dalla capacità dei soggetti di auto-organizzarsi. Il nostro riferimento è la teoria dell’autonomia della migrazione, ma c’è anche una coalizione assolutamente eterogenea che rende possibile il viaggio. Non si viaggia da soli, si viaggia in gruppo e già questo è come un minimo di solidarietà, di gruppo, di amicizie, che si costruisce stagione dopo stagione. Si viaggia anche grazie a questa coalizione che lo permette in modi diversi, in modo variabile a seconda del confine, a seconda dei luoghi di passaggio alla stazione successiva. Così, riscattiamo una storia del passato per applicarla al presente e usarla come contronarrativa contro il discorso pubblico egemonico. Ma anche per costruire un immaginario che i movimenti sociali che lottano contro la frontiera possano utilizzare per difendere le proprie posizioni.
Quale strategia c’è dietro questa negazione dell’agenzia delle persone migranti? Come disumanizza questa divisione tra vittime e mafie?
In primo luogo, c’è una dimensione autoassolutoria da parte di chi organizza le politiche di blocco, di selettività della frontiera. È molto comodo e confortante affermare che gli effetti immediati delle proprie politiche non sono una responsabilità propria, ma di certi cattivi che si è impegnati a combattere. Questo tipo di retorica istituzionale è molto confortevole, proprio perché costruisce un altro responsabile e libera dalla responsabilità quella che Mbembe ha chiamato necropolitica. Le politiche generano morti. Il mare funziona come il deserto, come uno spazio naturale trasformato in arma dai politici che ne gestiscono i confini e le possibilità di accesso.
C’è poi una seconda dimensione che ritengo importante e che ha a che fare con il fatto che il sistema di accoglienza e ricezione pensa il migrante come un oggetto, qualcosa che deve essere spostato da un luogo all’altro, in un quadro legato alla logistica. Ad esempio, in questi tempi in Italia, dove diverse imbarcazioni di Ong sono state bloccate, il governo sta applicando la pratica dello sbarco selettivo, come se uno dovesse meritare di essere soccorso. Qui, anche gli indicatori linguistici sono rivelatori: ad esempio, quelli che non vengono sbarcati sono stati chiamati “carico residuo”. Se sono carico residuo, significa che sono oggetti, che possiamo farci quello che vogliamo. Quindi costruiamo tutto un discorso intorno alla passività dei soggetti.
Serve anche come forma di socializzazione per entrare in un sistema di accoglienza che non tiene conto della libertà delle persone, dei loro desideri o aspettative. Il fatto che abbiano famiglia in Svezia e tu li costringa a restare in Italia, o che vogliano andare in Francia, perché lì hanno amici, affetti… L’intero sistema di accoglienza è strettamente legato all’idea di una blanda detenzione, è il motivo per cui molte volte i migranti accolti evadono dalle infrastrutture istituzionali.
La narratività nel libro serve a mettere al centro il soggetto e i suoi processi? Lo sguardo dell’etnografia lascia spazio alla sua agenzia?
L’etnografia è un metodo centrato sull’incontro, sulla conversazione, sull’intimità, e anche sul fare cose. Noi, per esempio, non facciamo interviste, l’intervista per noi è un po’ la morte della ricerca. Si tratta soprattutto di stare negli spazi e anche di avere un ruolo. Il ricercatore non è mai neutrale, questo ruolo può essere quello di un missionario, o di produrre un film o di contribuire direttamente al passaggio delle persone, aiutare in un progetto di volontariato o essere coinvolto in una lotta politica. Penso che il ricercatore sia un soggetto come tanti altri tra coloro che stanno alla frontiera.
L’etnografia è un metodo che richiede tempo ed è per questo che il libro inizia nel 2016 e termina nel 2020. Molte delle persone che incontriamo alla frontiera, poi le ritroviamo in un’altra frontiera. Si tratta di qualcosa che ci permette anche di allontanarci un po’ da quell’idea coloniale di ricerca, dove c’è un soggetto bianco che va lì, prende informazioni, le costruisce, le mette in un formato utile alla sua carriera accademica, e non restituisce nulla. Possiamo immaginare che dalle scienze sociali nascano altre pratiche che siano coinvolte e mirino alla trasformazione sociale.

Negli ultimi anni, con la criminalizzazione della solidarietà, l’appartenenza a quelle che chiameremmo “coalizioni” ha un costo. Le persone che fanno parte di queste reti rompono la loro quotidianità, abbandonano l’inerzia e si mettono a rischio. Chi partecipa a queste coalizioni oggi? Quali sono le motivazioni?
È interessante fare una sociologia delle persone solidali, perché ci parla di come si sta trasformando lo spazio politico del continente. In primo luogo, la solidarietà in questo ambito, come ogni forma di attivismo sociale, ha bisogno di tempo. Quindi, le due categorie principali che troviamo tra questi attivisti sono studenti e pensionati. Secondo: c’è un’egemonia femminile. La solidarietà è essenzialmente femminile in tutti i luoghi della frontiera: sono le donne che guidano, che organizzano. Terzo elemento: c’è una grande partecipazione di giovani discendenti della migrazione, di seconda e terza generazione. Anche questo è qualcosa di molto interessante perché è un riflesso di come si stia trasformando lo spazio demografico, ma anche quello dell’attivismo. Il quarto elemento è che spesso ci sono soggetti che si muovono. Un esempio, No Name Kitchen, che era un collettivo legato ai Balcani, adesso lo troviamo a Ceuta, oppure gruppi presenti nei campi a Calais, ora sono a Ventimiglia. È un altro modo di pensare al proprio posto all’interno dello spazio politico europeo.
In questo incontro che avviene in ogni spazio di frontiera, si generano diversi strati di soggettivazione politica: cosa significa, ad esempio, per un migrante che viene dal Bangladesh, doversi confrontare alle Canarie con uno spazio di solidarietà costruito attorno al mondo LGBTI? ? Cosa significa per un giovane cresciuto a Kabul passare tre settimane in un campo anarchico per cercare di passare dall’altra parte? I viaggi hanno una lunga durata e in tutti ci sono dinamiche di muri e accoglienza istituzionale, ma ci sono anche situazioni informali di rifugio: si articolano incontri che cambiano le persone, sia quelle solidali che quelle migranti in transito. Lì si sta costruendo un processo di cambiamento, di soggettivazione politica, che apre altre possibilità per il futuro.
Nel libro affrontate la tensione tra visibilità e invisibilità nel caso delle migrazioni, come strumento nelle mani delle persone migranti, di quelle solidali e delle stesse istituzioni.
Il tema della visibilità è cruciale, perché dietro ogni frontiera c’è sempre uno spettacolo e quello spettacolo, da parte delle istituzioni, serve ad alimentare l’industria della frontiera. Passiamo molto tempo a Lampedusa, Lampedusa è stata costruita come frontiera. In inverno incontri solo poliziotti. Sono migliaia i poliziotti che ci vivono, è una dinamica economica che permette all’isola di vivere la bassa stagione, perché mille poliziotti su un’isola di 7mila abitanti significa alberghi e distributori di benzina, significa scuola, famiglie, trasporti.
C’è una produzione permanente di panico, di allarme per cose che potrebbero essere risolte in modo molto più semplice. Così si produce, diciamo, un certo reddito geografico: si costruiscono il mercato del lavoro, gli interessi economici… A tutte le frontiere troviamo un momento di iper visibilità, e un altro in cui è meglio non parlare di migrazione. Ad agosto a Lampedusa è meglio non parlare di migrazione, se ne comincia a parlare a fine estate perché la stagione è conclusa e bisogna organizzare la bassa stagione in inverno.
A partire dall’attivismo e dalle persone in viaggio, c’è anche un gioco che può essere basato sulla visibilità e l’invisibilità. Ci sono modalità come quella che abbiamo visto in Centroamerica: le carovane come simboli visibili che affrontano direttamente la frontiera, creando una situazione difficile da gestire e alla quale bisogna dare una risposta. Un grande campo, come quello di Calais, implica il fatto di rendere visibile un problema e costringere i soggetti pubblici a dare una risposta. Il libro inizia proprio con lo sgombero di Calais, dove abbiamo vissuto nel 2016. Questo campo si era riempito di migliaia di persone che non volevano andare dall’altra parte, ma sapevano che era in corso una battaglia politica e che potevano fare pressione da lì per un qualche tipo di regolarizzazione. È una dinamica simile a un accampamento che diventa presidio, come quella del 15M in Spagna, un accamparsi per affermare una presenza.
Anche dalla prospettiva delle persone in transito e di chi aiuta a organizzare il viaggio, ci sono una serie di strategie legate all’invisibilità, o meglio al mascheramento, perché in realtà le frontiere non sono proprio delle vere e proprie fortezze, sono selettive. Si tratta quindi di associarsi ai flussi in cui è possibile attraversare il confine in quello che Manuel Delgado ha definito il diritto all’indifferenza. Un esempio molto banale: al confine italo-francese, a Ventimiglia, si passa il venerdì, perché quel giorno i francesi vengono al mercato. Nella popolazione francese c’è una componente non bianca maggiore che non tra gli italiani, quindi i migranti approfittano di quello spazio di indifferenza per attraversare. Nei movimenti sociali c’è una gran discussione sull’opportunità di rendere visibili le nostre pratiche di scontro contro la frontiera. Dovremmo raccontare quello che facciamo, o dovremmo semplicemente farlo? È una discussione che si accende in tutte le zone di frontiera: ci sono cose che si raccontano e ci sono cose che non si raccontano. Accadeva la stessa cosa nella vecchia Ferrovia Sotterranea, dove alcune cose erano nell’ambito della legge e altre cose appartenevano chiaramente a uno spazio di disobbedienza a una legge considerata ingiusta. L’indicatore più chiaro dell’esistenza di una Ferrovia Sotterranea in Europa oggi è il fatto che la solidarietà viene criminalizzata. ci sono cose che si raccontano e ci sono cose che non si raccontano, è come accadeva nella vecchia metropolitana, dove alcune cose rientravano nel quadro della legge e altre chiaramente appartenevano a uno spazio di disobbedienza a una legge che era considerato ingiusto. L’indicatore più chiaro dell’esistenza di una metropolitana in Europa oggi è il fatto che la solidarietà è criminalizzata.

Le narrazioni sulla migrazione si concentrano sui muri esterni, si parla meno di ciò che accade alle persone migranti una volta nel continente. Nel libro introducete l’idea della fuga e della caccia, che risuona con i tempi della Ferrovia Sotterranea contro la schiavitù.
L’idea di questo libro è che i soggetti possano vivere la fuga, i viaggi non sono un movimento lineare da A a B. Per arrivare da qui a lì, potrei aver bisogno di cinque anni, devo fare un tragitto che è imprevedibile. Allora, come si vive la fuga, che tipo di relazioni sociali si costruiscono nella fuga e in che misura queste relazioni sociali sono qualcosa che poi rimane nella società e costruisce altre possibilità?
Naturalmente, una delle attività del potere è la caccia, che serve a generare spazi ostili. Se i movimenti cercano di costruire spazi sacri, di rendere sacra la rotta, e non solo le città, il potere, con diversa intensità, genera la caccia. Può essere una caccia diretta come quella che abbiamo documentato a Calais, con un alto livello di violenza da parte delle forze di Stato. Oppure può essere una caccia invisibile indiretta, come quella che avviene nel mare, un mare completamente visibile attraverso le tecnologie. Tutto ciò che accade in ogni centimetro del Mar Mediterraneo è noto, e allo stesso tempo esiste un’invisibilità che consente a questo spazio naturale di gestire in qualche modo la frontiera.
Noi cerchiamo di rendere visibile il fatto che anche nella caccia non esiste un soggetto passivo. Le persone in transito, gli attivisti, cercano di produrre altre pratiche, altre risposte, per far sì che la caccia non ottenga i suoi trofei. Per il potere non si tratta tanto di dover fermare il traffico, ma di governare la mobilità eccessiva attraverso una mobilità forzata. È come una cinghia elastica in cui ti lascio uno spazio possibile di movimento. Dublino è il guinzaglio: arrivi in Italia e puoi muoverti per l’Italia, ma non puoi uscire da lì. E se esci dal sistema di accoglienza ufficiale, sei fuori dall’Europa e da alcuni diritti minimi fondamentali. Ma di fronte a questa mobilità forzata, ci sono sempre momenti di cesura, lacerazioni, che producono altre situazioni, sia alle frontiere esterne che alle frontiere interne dell’Europa.
Si potrebbero quindi visualizzare due mappe sovrapposte dell’Europa. L’Europa visibile e un’Europa sotterranea fatta di persone in transito, che vivono la fuga. Queste due mappe si toccherebbero dove ci sono coalizioni o dove le istituzioni trattengono i migranti in questa detenzione morbida di cui parlavi?
L’immagine delle due mappe è interessante. Bisogna anche vedere quali sono i punti di connessione, visto che quella Ferrovia ha stazioni di superficie dove sembra che tutta questa lotta diventi visibile. Per esempio quello che sta accadendo ora nel porto di Catania. Qui compare quella Ferrovia Sotterranea che attraversa il mare, questi punti di emergenza ferroviaria sono anche spazi tattici dove si gioca con il diritto. Le frizioni che si verificano anche all’interno delle istituzioni sono legate a questo spazio del diritto. I migranti possono anche utilizzare in modo tattico i sistemi ufficiali di accoglienza istituzionale, come luoghi dove riposare, procurarsi dei documenti e proseguire il viaggio.
Quindi ci sono due mappe, ma ci sono anche momenti, diciamo, di congiunzione tra questi due piani. La sfida è che questa mappa clandestina che consente la possibilità di viaggiare produce anche soggettività politiche che non sono nazionali, a partire da queste coalizioni. Ad esempio, quelle persone che hanno fatto lunghi viaggi hanno poi incontrato religiosi, pescatori, anarchici, attivisti, lesbiche, omosessuali, persone di ogni tipo, e questo presuppone una socializzazione che può aiutare le nostre società a lottare contro l’integrazione subalterna di queste persone.
Nel libro affrontate, di fatto, quella volontà del XIX secolo di costruire una democrazia abolizionista. Cosa comporterebbe questo ai nostri tempi?
La democrazia abolizionista ha a che fare con la volontà politica di abolire le frontiere. Quella lotta sta dietro, più o meno consapevolmente, molti di questi gruppi, sebbene abbiano livelli di teorizzazione diversi. L’abolizione della frontiera è uno strumento che ha effetti in tutti gli ambiti della società, poiché la frontiera è lo strumento che consente quelle condizioni di integrazione subalterna che ci toccano tutte e tutti. Abolire quel timbro che costruisce e classifica i soggetti e genera traiettorie diverse nel mercato del lavoro, o nello spazio delle opportunità, permetterebbe di costruire un’altra società.
Fonte originale: El Salto
Traduzione per Comune-info di marco calabria
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