di Enrico Goussot*
Gentile sig.ra Fedeli,
sto seguendo con crescente preoccupazione e sconforto i cambiamenti che sta apportando nel mondo della scuola, soprattutto per quanto concerne il reclutamento dei docenti e la “fase transitoria” annessa.
Ho una laurea magistrale con lode in Lingue, Letterature e Culture Moderne, nello specifico in francese. Sono in possesso della certificazione linguistica C2 in francese rilasciata dal ministère de l’éducation nationale in Francia, sono Cultore della materia c/o la cattedra di Critica letteraria e letterature comparate di Pescara. Mia madre è un’insegnante di lettere alle medie in pensione e mio padre, Alain Goussot, pedagogista di fama internazionale, ha insegnato pedagogia e didattica speciale in qualità di Professore Associato all’università di Bologna fino alla sua prematura e improvvisa scomparsa, avvenuta nel 2016. In quanto figlio di Alain Goussot, ho avuto modo di crescere con gli insegnamenti di grandi pedagogisti come Rousseau, Diderot, Freinet, Freire, Meirieu, Don Milani, Maria Montessori, e altri, che vedevano nella scuola pubblica una grande potenzialità, mettendo in evidenza soprattutto il valore della pedagogia nel processo educativo e non nel didatticismo sfrenato di oggi. Mio papà se n’è andato troppo presto, ma mi ha insegnato a lottare, a non smettere di sognare in un mondo diverso, seguendo a tutti i costi il principio della giustizia sociale e dell’uguaglianza. La scuola di oggi è tutt’altro che questo.
Verso i ragazzi c’è una smania alla “certificazione diagnostica” dei disturbi, tutti da valutare con uno sguardo diagnostico. L’insegnante diventa un valutatore, un etichettatore. È impressionante vedere l’intromissione e l’invadenza della clinica medica sui ragazzi a discapito della pedagogia, dello sguardo educativo e del potere dell’educazione. Oggi la pedagogia vive una crisi senza precedenti, non viene più menzionata se non ridotta a didatticismo. Verso gli insegnanti c’è la tendenza ad avere la mania della certificazione. Le competenze devono essere certificate, bisogna correre verso l’acquisizione di crediti, di diplomi per essere efficienti, validi, almeno sulla carta.
Lo sguardo “fermo” e di “attesa” della pedagogia (quello del seme che ci mette tempo a trasformarsi in albero) non è più tollerabile. Bisogna correre, non basta più la laurea di secondo livello, è quasi superata, bisogna acquisire ulteriori competenze che certifichino l’appartenenza a questa corsa, dove vince chi ha più titoli. Non basta più avere una certificazione, bisogna superare un test per accedere a un tirocinio triennale fatto di innumerevoli prove, all’interno del quale per due anni non si può insegnare, perché ritenuti impreparati. Bisogna superare la valutazione finale, alla quale bisogna arrivare competenti, perché poi bisogna imparare a classificare i ragazzi secondo i bisogni educativi speciali, bisogna imparare, da etichettati e certificati, a certificare. E la pedagogia? E l’attesa propria dell’educazione? E l’esperienza dell’educatore, dell’insegnante?
Gentile signora Fedeli, lei è responsabile di questa riforma che sta disumanizzando la scuola, riducendola a un diplomificio e a una serie di operazioni meccaniche, dove le persone non sono più il cuore pulsante. Siamo nel bel mezzo di una corsa che in nome della riduzione del precariato lo ha amplificato; infatti è dal 2014 che non ci sono procedure di abilitazione e quest’anno in terza fascia ci sono state oltre 650.000 domande. Le capacità di un docente non possono essere valutate con un test, con una certificazione di acquisizione di 24 crediti per accedere a uno pseudo concorso, il cui traguardo è tanto nebuloso quanto dubbio. La capacità di un docente sta nell’ I Care, quello caro a Don Milani.
La capacità di un insegnante sta nell’avere passione a contatto con i ragazzi, nel creare opportunità educative, nel portarli tutti, dico tutti, allo stesso traguardo, nel non lasciarne per strada alcuno. Queste capacità, signora ministro, non sono valutabili né con acquisizione di crediti pre concorso, né con il Fit. Un fit dove un docente come me (lo sono in quanto ho un anno pieno di servizio alle spalle come precario) deve tornare all’università, deve riscriversi all’università, colpevole di essersi laureato nel 2015, anno in cui non ci sono state procedure di abilitazione. E dovendosi riscrivere all’università deve tornare, da docente, a essere studente, come se la società gli dicesse “tu non sei idoneo, sei uno che ha fallito, quindi studia”. Insomma, come si fa con i ripetenti che devono fare esami aggiuntivi. È scandaloso che solo in Italia, dico solo in Italia, la Laurea Magistrale non sia titolo di accesso per un concorso all’insegnamento. Lei ha sempre sulla bocca la parola “Europa”, ma dimentica che in paesi come la Francia, dopo la laurea c’è il concorso annuale per l’accesso ai ruoli dello Stato. Chi lo supera diventa di ruolo, chi non lo supera rimane supplente. O in paesi come il Belgio dove l’abilitazione, dai tempi di mio padre (fine anni Settanta) si consegue nel corso dell’ultimo anno di laurea magistrale. È assurdo che nella fase transitoria i neo laureati e i già laureati anche con esperienze di servizio siano stati equiparati agli studenti che si devono ancora laureare. Personalmente ho un anno continuativo di esperienza didattica come insegnante di francese e trovo indecoroso che la mia persona, la mia esperienza non venga giustamente valorizzata. Signor ministro, non è colpa nostra se ci siamo laureati prima!
Questo decreto sarà passibile di innumerevoli opposizioni e ricorsi, perché è inaudito che si cambino le regole del gioco in corso d’opera. Signora Fedeli, avrebbe dovuto esserci una norma che tutelasse coloro che sono già laureati. Lei sta passando con un carro armato sulle nostre vite, sui nostri progetti, sui nostri saperi, sulla nostra cultura, sulla nostra bravura. Questa è un’offesa a un patrimonio culturale, quale noi siamo, che così facendo viene gettato via senza possibilità di appello. È un’offesa alla nostra dignità, ai nostri sacrifici. Per questo mi oppongo e farò di tutto per portare avanti questa causa. La invito a ripensare profondamente questa fase transitoria come atto di rispetto verso la nostra dignità e verso il suo patrimonio culturale rappresentato da noi. Diversamente, in quanto uomini e donne di cultura, patrimonio di questo paese, ci adopereremo attraverso tutte le strade che la democrazia e la legge ci consente per contrastare il suo funesto programma.
Cordialità e buon lavoro, soprattutto di ripensamento. In fede
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Silvia Cognetti dice
Caro Enrico, capisco molto bene il tuo sentimento. Io mi sono laureata qualche anno prima di te e dopo una supplenza di un anno nella mia cdc (inglese), mi sono trasferita all’estero per motivi personali. Prima in Australia e poi in Brasile. In entrambi i paesi ho SEMPRE lavorato in scuole sia pubbliche sia private, collaborando anche con istituzioni del posto convenzionate col governo italiano. Ho conseguito anche io la certificazione C2 del Cambridge e negli ultimi 3 anni in Brasile ho lavorato in una scuola dove impartivamo lezioni utilizzando il CLIL, tanto osannato dai nostri vertici. Ebbene, torno in Italia dopo 7 anni e tutto quello che ho fatto vale esattamente 0. Anche io, come te, sarò equiparata a chi non ha mai insegnato e anche io dovrò sostenere esami per dimostrare di essere competente in psicologia, pedagogia, didattica ed antropologia (dopo 7 anni a lavorare in classi multiculturali, credo di saperne qualcosa in merito). É dura da accettare, siamo in tanti con tante situazioni diverse. Ho anche care amiche che dopo 10 anni di precariato in Italia, sognano giustamente di potersi sistemare ed io sono contenta se loro avranno questa possibilità, ma mi sento davvero come l’ultima ruota del carro. E mi chiedo, mi sento così perché lo sono e dunque merito di sentirmi così, o perché forse dall’alto ci hanno messo nella condizione di sentirci così? Sempre a dover dimostrare di valere qualcosa, come dici tu, a dover dimostrare di meritarci il cartellino.