Francesco è figlio di un ricco mercante. Combatte la battaglia di Collestrada nel 1202 contro i nobili di Assisi, poi lascia tutte le ricchezze, gira scalzo, non tocca più il denaro. Sceglie la povertà. Dice che se possiedi qualcosa sei costretto a difenderla e diventi violento. Nel 1219 arriva in Egitto. Parla con i crociati, gli ricorda il quinto comandamento: non uccidere. Ma non lo stanno a sentire. Prova a parlare anche con i musulmani, ma la guerra continua lo stesso. Francesco torna a casa con l’idea che non serve a niente conquistare quel pezzo di terra dove è nato Gesù. Che la terra è tutta uguale e che Betlemme è solo un posto di povera gente che somiglia a tanti altri nel mondo. Così nel 1223 fa il suo presepe a Greccio, un altro posto di povera gente. Un borgo dell’alto Lazio. La notte di Natale di otto secoli fa qualche centinaio di persone sono state in Terra Santa senza muoversi dalla Sabina.
Dopo ottocento anni quella terra è ancora un posto di poveri cristi. Qualcuno ha fatto il calcolo dei bambini uccisi da Erode. Se gli abitanti di Betlemme erano un migliaio potevano esserci circa 30 neonati. Ma volendo uccidere solo i maschi il numero si riduce ulteriormente. A settanta chilometri a sud-ovest assistiamo a una strage moderna. I numeri sono altri perché la tecnologia ci permette di essere più performanti dei soldati di Erode.
Secondo l’Oms: «A Gaza muore in media un bambino ogni dieci minuti». I morti in totale oggi arrivano a 18.000 e i bambini sono quasi un terzo. Cioè se lasciamo fuori dal numero gli adulti ci rendiamo conto che i bambini uccisi dall’esercito di Israele sono 5 volte il totale degli israeliani uccisi dai miliziani di Hamas.
Non sono un esperto e non conosco in maniera profonda la storia di quella terra e della gente che la abita. Se devo aggiungere la mia opinione a quella di altri commentatori preferisco farlo al bar dove siamo tutti consapevoli della nostra ignoranza, dove sappiamo che abbiamo solo opinioni. Infatti mi capita di commentare i numeri di questo conflitto. Mi capita di farlo al bar. Non è un discorso circostanziato, non sto a ricordare che prima del 7 ottobre la guerra era iniziata da un pezzo, che Gaza è una galera, che Hamas esiste almeno dalla fine degli anni Ottanta e che è stata sostenuta persino da Israele per contrastare al-Fatah. No. Parlo solo del numero dei morti. Siamo tragicamente oltre una proporzione che fa spavento: più di dieci palestinesi uccisi per ogni israeliano.
Il bar nel quale discuto con altri clienti sta a Roma. Nella mia città questi numeri ricordano il marzo del 1944, l’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Uno mi fa: «Vogliamo dire che gli israeliani sono nazisti?». No. Non lo dire mai, non dobbiamo dirlo mai. E per tante ragioni. Per esempio non voglio dire che i militanti di Hamas sono partigiani. E tantomeno voglio che si pensi ai partigiani romani del ’44 come a una banda di terroristi.
Eppure la sproporzione è evidente. E pesa la giustificazione secondo la quale Israele ha il diritto/dovere di reagire e che, nonostante mezzo mondo dichiari che è una carneficina sproporzionata, Israele può considerarla un’operazione militare perfettamente legale per colpire i terroristi.
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E poi chiedo agli altri clienti del bar: «Secondo voi come sono morti i palestinesi?». Hamas ha bruciato i bambini e squartato il corpo delle donne. E l’esercito israeliano come li ammazza i bambini palestinesi? Con le caramelle avvelenate? E le donne palestinesi non sono squartate quando un razzo israeliano gli sfonda la casa? Anche l’esercito israeliano brucia e squarcia i corpi, ma non li mostra. I bambini fatti a pezzi dalle armi israeliane sono molti di più di quelli israeliani morti il 7 ottobre, ma non vengono filmati.
Ecco la differenza. Hamas deve dimostrare che può reagire. E deve mostrare ogni singolo assassinio per farlo pesare come un macigno. A Israele non basta reagire, deve dimostrare che la propria forza è dieci volte più grande, ma senza mostrare i morti. Come se fosse un atto di giustizia. Una naturale conseguenza. Che, anzi, bisogna nascondere per non mettere in secondo piano la “vera” motivazione, cioè il diritto/dovere di reagire.
«Il primo buco nero è quello che sta accadendo ora a Gaza – scrive Gideon Levy di Haaretz – L’infinita verbosità dei media israeliani quasi ignora l’orribile bagno di sangue. Non una parola sul disastro di Gaza. Non che sia giustificato o ingiustificato: semplicemente non esiste. Il disinteresse è deliberato. Non ci sono resoconti. Nessuna immagine. A malapena un accenno». Cosa succederebbe se Israele mostrasse i corpi sventrati di quei 18.000 palestinesi? Recentemente gli Stati Uniti hanno bloccato l’approvazione di una risoluzione delle Nazioni unite che chiedeva “un cessate il fuoco umanitario immediato” nella Striscia di Gaza. L’ambasciatore israeliano all’Onu Gilad Erdan ringrazia «il presidente Biden per essere stati fermamente al nostro fianco, oggi, e per aver dimostrato la loro leadership e i loro valori».
Quando domani al bar qualcuno mi chiederà «vuoi dire che gli israeliani sono nazisti?» continuerò a rispondere «No», questo abbiamo il dovere morale di dire con forza, ma aggiungerò che l’analogia mi spaventa perché vedo la stessa arma che usano i regimi peggiori: nascondere i morti e legalizzare il crimine.
Nel presepe di Greggio pensato da Francesco c’era la mangiatoia, l’asino e il bue. Nient’altro. Non voleva mettere in scena la nascita di Gesù, ma ricordare a tutti che era nato povero in un posto di povera gente identica a tanti poveri cristi in ogni parte del mondo. Oggi anche Gaza è un presepe vuoto come quello di Francesco. In quella guerra ci sono tutte le guerre. Tra quei morti ci sono tutti i morti che non possiamo giustificare.
*Ascanio Celestini è in tournée teatrale per la sua ultima opera “Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato”. Questo articolo è stato pubblicato anche su il manifesto
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