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La comunità perduta

Rosaria Gasparro | 13 marzo 2016 | 0 commenti

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foyer iris naveil

di Rosaria Gasparro*

Lasciamo segni della nostra presenza, in ogni luogo in ogni lavoro. Ne lasciamo ancora di più se siamo insegnanti, come nell’etimo-destino del nostro nome, segni non sempre tangibili che chiedono tempi lunghi per essere visibili.

Chi ha scelto di fare l’insegnante sapeva finora dove lasciare i segni della propria presenza: lì nella propria aula, nella propria classe, in quel possessivo di reciproca appartenenza, lì dove ci sono i bambini. La classe, l’unica vera insostituibile ragione fondativa della nostra professione che richiede tutte le energie possibili da parte di chi la sceglie. Che richiede tempo e ancora tempo, tempo che straripa fuori dalla scuola con ore e ore di studio, ricerca, preparazione; un tempo sequenziale, cumulativo, lineare, il più noto kronos, aspettando però l’occasione, il momento giusto, l’attimo fuggente, il kairos.

Una professione che richiede passione per la conoscenza, amore per il vivaio di futuro che ogni giorno entra in classe, cura di ognuno, relazione di aiuto per imparare a fare da soli, costruzione di saperi e di comunità senza frontiere. Una professione che gestisce il caos e affronta l’ignoto, in una contemporaneità di bisogni e difficoltà diverse; che dà ad ognuno la parola, che tra scambi, dialoghi e legami, insegna ed impara a vivere. Una professione che richiede una presenza completa, integra, onesta. Un esserci in ascolto, per apprendere l’insegnamento di ritorno, quello che viene dai bambini, perché ci si educa e ci si libera insieme.

Tutto questo è scivolato via, sullo sfondo. Svuotato del suo senso profondo. Reso opaco. Acquisito come semplice dovere. Come operazione scontata, un a priori trasceso a cui si chiede rendicontazione di qualità senza volerne conoscere e soppesare la complessità, senza volerne sostenere le difficoltà, senza alcuna considerazione dell’impegno e della fatica, con la mitizzazione delle tecnologie e della digitalizzazione dei soggetti come elemento salvifico per risalire la china dei punteggi nelle rilevazioni internazionali, senza tener conto che altre ricerche dimostrano esattamente il contrario. Dimenticando che la scuola primaria era ai primi posti nel mondo, prima delle ultime devastanti riforme.

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.

Non è più prioritario insegnare. È in atto una mutazione antropologica e genetica dell’insegnamento. Gli indicatori del merito corromperanno il fenomeno stesso che vorranno valutare, è la legge di Campbell a dirlo. Quindi corromperanno molti di noi, quelli ansiosi di far parte del cerchio magico. Per gli altri aumenterà il senso di inadeguatezza e di solitudine, a scuola come alla guerra. Saremo più demotivati e più infelici, meno liberi, senza comunità.

Nei tre macro-criteri individuati per la valutazione, su quattordici concetti che ne rivelano la visione e l’indirizzo di intenti, solo uno interessa il nostro lavoro quotidiano, quello fondamentale: la qualità dell’insegnamento. Peccato che sia così imponderabile. Tutto il resto è contorno, forma senza sostanza, fuffa.

Gli insegnanti, prima della 107 (la legge della “Buona scuola”, la 107 del 2015, ndr), non pensavano alla carriera intesa come avanzamento di posizione, come scalata di successo, come spettacolo di sé in una gerarchia premiale, a scapito di altri. Gli insegnanti, quando pensavano alla carriera, pensavano alla propria conoscenza e alla propria coscienza in divenire, alla propria umanizzazione, a un progressivo percorso di crescita, per acquisire sicurezza e padronanza, per sperimentare e perfezionare i propri metodi, per costruire il proprio strumentario di percorsi, strategie, conoscenze, attività, materiali, esperienze, sapendo che l’essenziale è sempre altrove, nell’imprevisto e nel nascosto che non sono programmabili. La carriera riguardava l’avanzamento nell’altrove dentro e fuori di sé che gli anni spostava un po’ più in là.

Ora la carriera è per una ristretta oligarchia di devoti che hanno lo sguardo rivolto verso l’alto, mentre i maestri fedeli al mandato continueranno a curvarsi e ad abbassare gli occhi ad altezza dello sguardo dell’infanzia, a sentire forte un’unica grande responsabilità: verso quel prossimo bambino.

 

* maestra in una scuola pubblica di San Michele Salentino (Brindisi)

 

Tags:comunità, educare, primo piano, Scuola

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